Fermate George Bush, il piccolo Nerone che vuole il suo Vietnam

Esattamente un mese fa, il 10 dicembre 2006, il quotidiano conservatore britannico The Times riportava una dichiarazione del presidente degli Stati Uniti, George Bush, che avrebbe dovuto provocare una sollevazione:

“Non mi ritirerò dall’Iraq neanche se restassero ad appoggiarmi solo mia moglie Laura e il mio cane Barney”.

Nessuno si sollevò, neanche i media così attenti a fare le pulci a quello che dicono dirigenti politici mondiali meno amati da chi governa il mondo. I pochi che devono essersi soffermati su questa dichiarazione devono averla trovata puerile, capricciosa, tragicamente frivola, di fronte a una catastrofe che, secondo alcuni calcoli, ha già provocato la morte di 650.000 cittadini iracheni. “Non mi ritirerò dall’Iraq neanche se restassero ad appoggiarmi solo mia moglie Laura e il mio cane Barney”. Cosa si può fare se l’uomo più potente del mondo è un bambino capriccioso e frivolo con seri problemi edipici?

Il presidente degli Stati Uniti, George Bush junior, ha dunque scelto la strada dell’escalation vietnamita per l’Iraq. Di fronte all’annuncio dell’invio di più uomini -già che secondo Bush stesso l’unico errore ammesso è stato aver usato troppo poco la sterminata forza militare- gli interpreti ufficiali del pensiero di George Bush, quelli che “l’America è sempre la prima democrazia del mondo”, non hanno neanche provato a difendere la scelta. Tantomeno hanno fatto autocritica, visto che quella scelta avevano difeso e appoggiato e, di fronte alle cassandre pacifiste, avevano millantato quella irachena come una passeggiata dove la gente avrebbe offerto fiori e non bombe agli occupanti. Se la sono cavata con una risposta psicologica: “Bush non vuole passare alla storia come uno sconfitto”.

Benito Mussolini, alla vigilia del 10 giugno 1940, spiegò al Maresciallo Pietro Badoglio l’attacco alla Francia con raro cinismo: “ho bisogno di alcune migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace quale belligerante”. Il discorso di stanotte di Bush lo ricorda in maniera sinistra. Sa perfettamente che 20.000 soldati in più non cambieranno la natura e le sorti del conflitto. E’ un cambiamento cosmetico perché non ha lo spessore morale per ammettere di aver sbagliato tutto. Ha bisogno di altri morti e poi qualcun altro al posto suo lascerà Baghdad come fu lasciata Saigon dopo avere ammazzato due milioni di vietnamiti.

Da pochi giorni gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente in Somalia. Hanno massacrato decine di civili spacciandoli per terroristi. Quei morti sono stati necessari, propedeutici e funzionali all’annuncio dell’escalation in Iraq: ?Se siamo costretti ad intervenire in uno scenario apparentemente marginale come quello del Corno d’Africa, tantomeno possiamo lasciare campo libero in Iraq?. Quello in Somalia è un intervento illegittimo, unilaterale, soprattutto imprudente, ma che serve a dimostrare, agli spettatori di Rete4 e Fox-TV, che dietro la maschera della minaccia terrorista si debba accettare tutto. L’Unione Europea ha guardato attonita all’apertura del fronte somalo. Perfino l’ascaro Tony Blair ha detto che non seguirà Bush nella nuova escalation irachena.

Tuttavia, pensare che il dramma che gli Stati Uniti stanno imponendo al mondo sia dovuto solo al piccolo Nerone George Bush, sarebbe fuorviante. John McCain, il suo più probabile successore repubblicano, è un suo fiero critico da destra: fin dall’inizio avrebbe inviato più uomini e avrebbe voluto più obbrobri. L’accusa più grave mossa dal Partito (clone) Democratico non è stata quella del crimine massimo della guerra, ma quella di aver speso male il denaro dei contribuenti e aver perso “vite americane”, come ha testualmente ripetuto stanotte il capo senatore Harry Reid usando lo stesso linguaggio, la stessa cultura politica di George Bush.

Distinguere tra ?vite americane? e ?vite altrui? è un’espressione razzista molto in voga negli Stati Uniti d’America. Quale altro dirigente politico al mondo -come invece si fa quotidianamente negli Stati Uniti- parlerebbe della necessità di sacrificare vite altrui per salvare “vite francesi”, “vite bulgare”, “vite italiane”? La stessa espressione è repellente. Eppure suona così familiare nella vita politica statunitense, viene ripresa dalla stampa senza batter ciglio, come se non fosse la manifestazione più atroce di questo nuovo arianesimo messianico che è il neoconservatorismo.

Ancora dopo l’11 settembre, se pure qualcuno dubitava dell’autorità morale degli Stati Uniti per amministrare giustizia sul pianeta intero, in pochi dubitavano sul fatto che avessero la forza militare per farlo. Oggi, dall’Afghanistan alla Somalia all’Iraq, sappiamo che da Abu Grajib a Falluja al cappio al collo di Saddam Hussein, gli Stati Uniti non solo hanno perso ogni autorità morale. Non hanno possibilità alcuna di vincere militarmente, ma possono continuare a farsi e soprattutto fare molto male. Sono lo specchio del bambino capriccioso, prepotente e frivolo che li governa e che del resto hanno democraticamente eletto.

Il cantautore Quintín Cabrera, in una delle sue ballate più popolari*, canta che la cosa della quale gli statunitensi avrebbero più bisogno, per rientrare in se stessi dal loro delirio di onnipotenza, è una nuova lezione vietnamita. Bush lo sta accontentando. Ma a che prezzo, soprattutto per le ?vite irachene?, ?vite somale?, ?vite afghane? che continueranno a essere massacrate, torturate, stuprate, bombardate per coronare il sogno di bambino di George Bush junior di ?non passare alla storia come uno sconfitto?!

* ?Nombrando a la Democracia,/ sojuzgaron y mintieron,/ejecutaron, mataron,/ bombardearon, sometieron./ Por eso y por mucho más/ lo que el Yanqui necesita/ es una aumentada dosis/ de jarabe vietnamita?.

* ?In nome della democrazia /soggiogarono e mentirono /giustiziarono, uccisero / bombardarono, sottomisero / Per questo e per molto di più / quello del quale lo Yankee ha bisogno / è di una dose ancora più forte / di bastonatura vietnamita