Quei volti sorridenti dei soldatini israeliani

La storia di Uri Grossman (nella foto), figlio di David, militare di leva, morto a 20 anni in un paese straniero dove era stato mandato a fare la guerra, non può non commuovere ed ispirare pietà. Ma non può neanche indurre ad un messaggio che porta a leggere la guerra in Libano come parte dello scontro di civiltà tra un Occidente illustrato ed un Islam zotico.

Le cronache ricordano l’iniziale appoggio alla guerra e poi l’appello alla pace da parte del padre, scrittore autorevole, che rende ancora più straziante la vicenda personale. Tutte raccontano in maniera pudica il dolore privato della famiglia. Descrivono un ragazzo sensibile e colto della classe media benestante israeliana, appassionato di calcio e di teatro, che appena congedato era atteso da un iniziatico giro del mondo. A quel viaggio Uri Grossman non è mai arrivato ma, con ogni evidenza, era e sarebbe stato una bella persona.

Il servizio di leva, nel XIX secolo, ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità nazionale e di quella che George Mosse chiama la religione civile del sentirsi parte di una comunità nazionale. Il servizio di leva ha rappresentato anche una parte del percorso di trasformazione di tanti braccianti analfabeti in cittadini. Poi, più avanti e ancora con più forza nel XX secolo, il servizio di leva si è tinto spesso dell’iniziare i giovani al nazionalismo aggressivo al quale ha fatto da “fornitore”, soprattutto a causa delle ripetute guerre della prima metà del secolo. Il nazionalismo estremo e le guerre coloniali vi hanno avuto un ruolo fondamentale. In Italia e in molti altri paesi, nel secondo dopoguerra, il lungo periodo di pace ha affievolito e poi annullato le ragioni del servizio di leva, fino all’abolizione di questo in buona parte del mondo. E’ successo soprattutto in quello ricco e occidentale, che ha preferito appaltare le proprie guerre non più alla leva ma ad eserciti professionali quando non a mercenari o a paesi terzi. Non è il caso di Israele, per ragioni temporali, politiche e geopolitiche.

Nonostante nella composizione degli eserciti professionali si ripropongano tuttora dinamiche classiste o perfino razziste (soprattutto negli Stati Uniti), ciò ha reso in qualche misura più lieve per la società l’idea della morte di un soldato professionista. Se il soldato di leva era il figlio della nazione, il soldato professionista è altro, può essere perfino straniero, dalla Legione straniera francese alla carne da cannone latinoamericana usata dagli Stati Uniti.

Solo in alcuni paesi -tra questi l’Italia- la differenza tra soldato professionista e soldato di leva sfugge. Inoltre da noi, da tempo immemorabile si è persa l’idea del riservista, così connessa a quella del “popolo in armi” chiamato a difendere la nazione. E’ un bene, beninteso, ma impedisce di collocare l’immaginario collettivo di altri popoli -per esempio quello svizzero- nel quale quella figura resta cardine. Da noi il connubio tra una corretta visione meridionalista e classista della leva militare, unito però alla retorica patriottarda delle missioni di pace -presentate come atto di generosità disinteressata sia del paese sia delle truppe impegnate- e al fatto che l’esercito italiano non sia mai stato usato contro la popolazione civile (di fatto neanche dal fascismo mentre altri corpi e apparati dello stato come carabinieri o servizi segreti sono stati usati spesso e volentieri, anche in democrazia), non ha prodotto una sostanziale divaricazione nell’immaginario tra il “soldatino di leva” e l’attuale soldato professionale.

In Italia, ed è un franco e triste paradosso, la morte sul lavoro di un militare professionista crea ondate di emozione popolare sapientemente organizzate dai media e dalla classe politica, mentre la morte sul lavoro di un muratore professionista in un cantiere edile crea il silenzio pneumatico, anche questo sapientemente organizzato dai media e dalla classe politica.

In Israele il soldato di leva è più che mai il figlio della nazione. Tsahal, l’esercito, è parte dell’identità nazionale ed ha fatto la nazione. In pochi paesi come per Israele l’esercito è stato essenziale nel “nation building” ed è parte sostanziale dell’identità stessa del paese. Simboleggia l’ebreo di Masada, quello che non si arrende, contrapposto all’ebreo errante, impaurito da un mondo oggettivamente ostile. Negli ultimi anni, proprio all’aver servito nell’esercito sono stati collegati una serie di diritti connessi allo stato sociale, per altro sempre più asfittico dopo il disastro di Bibi Netanyahu come ministro dell’Economia. E’ una maniera odiosa di limitare l’accesso degli arabi israeliani allo stato sociale, ma testimonia anche l’intima connessione tra il servizio militare e la nazionalità, anche quando si fa escludente, ma che sarebbe troppo tranchant definire solo figlia del militarismo.

In democrazia, almeno nella democrazia israeliana, aver servito come generale nell’esercito è parte fondamentale del curriculum di un politico. Sia l’ultimo capo del governo di destra, Ariel Sharon, sia l’ultimo capo del governo di sinistra, Ehud Barak, sono stati generali. Le massime perplessità destate da Ehud Olmert e Amir Peretz sono state -visto da destra- l’essersi comportati da apprendisti stregoni senza essere mai stati militari e -visto da sinistra- quello di essersi troppo affidati ai militari. Succede qualcosa di simile negli SU dove a Bush si rimprovera non il folle bellicismo ma l’essersi imboscato per non andare in Vietnam. Proprio il non avere alle spalle un curriculum militare importante, rendeva Olmert e Peretz, secondo tali tesi, vulnerabili e costretti a mostrarsi forti avallando l’aggressività dello stato maggiore. Dalla politica alle strade, chiunque conosca Israele sa quanto la presenza dell’esercito, benvoluta dagli israeliani, vista ovviamente in maniera opposta dai palestinesi, sia una presenza costante, non foss’altro per quelle centinaia di ragazze e ragazzi che vanno e vengono da casa alla caserma e che sempre stanno alle fermate degli autobus in maniera ben poco marziale ma armati fino ai denti.

Per l’intera società israeliana è difficile non condividere ognuna delle morti come fossero le morti di membri della propria famiglia. Il quotidiano Haaretz -quello più critico verso il militarismo israeliano- testimonia la propria partecipazione pubblicando ogni giorno le foto e i nomi dei caduti. Sono, come quella di Uri, foto di ragazzi giovani, belli, sani, probabilmente colti e sensibili, e che avrebbero avuto un bell’avvenire davanti.

Ma noi non siamo in Israele. Non siamo in Israele e non si può eludere una riflessione su quelle foto. Uri Grossman è un nostro morto non più di quanto non lo sia l’ultimo miliziano di Hezbollah caduto in questa guerra. Entrare in casa Grossman -non mi sfugge il caso particolare del personaggio pubblico e rispettabile- condividere il suo lutto, diviene allora parte di una guerra mediatica asimmetrica. L’esercito israeliano ha il vantaggio di avere al seguito decine di giornalisti e fotografi embedded. E così le prime pagine dei giornali di tutto il mondo sono da settimane piene di questi bei visi di ragazzi bianchi in armi, spesso sorridenti. In genere si preferiscono foto di ragazzi con occhiali che hanno un’aria d’intellettuale prestato alla guerra. Sono spesso primi piani e testimoniano spesso abbracci affettuosi e mai marziali. Gli Hezbollah non hanno fotografi embedded e se li avessero non lavorerebbero per Reuters o AP e non farebbero il giro del mondo. Non circolano mai primi piani dei miliziani. Non circolano mai primi piani. Impossibile vedere il volto di un Hezbollah sorridente. In genere appaiono anzi incappucciati e ultimamente girano foto, delle quali non conosco la spiegazione, ma non credo sia quella più facile per un europeo, nelle quali queste milizie utilizzano quello che appare un sinistro saluto romano. Gli uffici stampa lavorano e hanno il credito che meritano. I numeri dei morti israeliani sono considerati -e probabilmente lo sono- sempre ufficiali. I numeri dei morti Hezbollah sono variabili. Per la stessa azione la televisione al Manar può dare 4 caduti mentre l’esercito israeliano parlare di 40. Chissà, ma i loro volti comunque non ci vengono mostrati. Fotograficamente tendiamo a vedere questi caduti come i morti tedeschi in alcuni film sulla seconda guerra mondiale. Cadono come birilli, senza nome e senza volto ma sono anche loro ragazzi di 20 anni. Magari meno colti e con un avvenire meno brillante davanti.

Qualche anno fa il quotidiano britannico Guardian, costantemente accusato di antisemitismo ogni volta che criticava il militarismo israeliano, commissionò un’indagine su tutta la storia della sua copertura di questioni mediorentali. Ne vennero fuori cose interessanti. Per esempio che costantemente pubblicava almeno i nomi e le età di tutte le vittime israeliane e mai i nomi e le età di quelle palestinesi, che restavano sempre solo dei numeri. “Oggi sono morti Uri di 20 anni, Ariel di 23, Amos di 19 e Avraham di 34, oltre ad otto palestinesi senza nome”. Forse non sarebbe impossibile procurarsi anche quei nomi. Venne fuori che costantemente il Guardian intervistava parenti delle vittime israeliane e praticamente mai parenti delle vittime palestinesi. Venne fuori che le foto degli israeliani erano sempre ritratti molto composti e quelle dei palestinesi in genere scene di isteria. Venne fuori, in conclusione, che da sempre il Guardian, pur considerato filopalestinese, si era indotto a presentare le vittime israeliane in maniera più empatica rispetto a quelle palestinesi.

Ecco dunque che l’umana compassione diviene un’operazione per nulla ingenua. Come può uno con la faccia e la storia di Uri Grossman, o centinaia di ragazzi come lui, commettere le atrocità che vengono attribuite a Tsahal? Evidentemente non può, e lombrosianamente quei bei ragazzi bianchi con gli occhiali diventano automaticamente innocenti. E anche se muoiono in un paese straniero che hanno invaso, non possono essere altro che vittime. Eppure quelle atrocità qualcuno le commette, a Gaza come in Libano. Basterebbe leggere i racconti dei refusnik. Ma chi li legge i racconti dei disertori? Ne intervistai uno a Gerusalemme nel 2003, chissà che fine ha fatto e come ha vissuto questa guerra. Come ai bei visi israeliani non possono essere attribuite atrocità, a quei truci miliziani senza volto possono invece essere attribuite tutte le efferatezze. Se ne leggono di tutti i colori. Addirittura si circonderebbero di bambini per farli saltare in aria con loro e poter dare così la colpa agli israealiani, si legge un po’ ovunque in giro con sprezzo del ridicolo. Né l’immagine dell’esercito di bravi ragazzi né quella dei folli criminali sono credibili. Ma gli israeliani -aiutati dai media mainstream- fanno di tutto per dare del loro esercito un’immagine benevola. La controparte invece -basta pensare ai video degli shahid, i kamikaze- preferisce mostrare un’immagine aggressiva. Le più “trucide” di tali immagini, basta pensare alle parate di miliziani o alle esecuzioni di spie e delatori, sono proprio quelle che, di nuovo sapientemente, prestano il fianco ad essere utilizzate contro di loro dai media mainstream occidentali.

E’ compito di chi non crede che la guerra sia mai una soluzione, quello di non farsi condizionare dall’informazione che è totalmente in mano di chi invece pensa che la guerra sia una soluzione, che il militarismo sia una soluzione, che il vicino sia un nemico, di non farsi condizionare dalle immagini manipolate dai rispettivi minculpop. Forse la cosa più vile che è stata scritta al mondo dal 12 luglio in qua l’ha scritta il senatore di Forza Italia, Paolo Guzzanti. Ha affermato che bisognava stare dalla parte d’Israele perché i soldati israeliani sono persone colte, fisici, intellettuali, musicisti. Applicando lo stesso criterio, Paolo Guzzanti sul Piave sarebbe stato dalla parte degli austriaci, che erano spesso colti, amanti della letteratura e della musica classica, contro quegli analfabeti dei contadini veneti, sardi o pugliesi.