Michelle Bachelet: una donna non fa primavera

Michelle Bachelet sarà la prima donna presidente del Cile, terza donna del continente americano (prima formalmente di sinistra) dopo la nicaraguense Violeta Chamorro e la panamense Mireya Moscoso. Ma non sarà una presidenza di rottura per una coalizione che governa nel continuismo dal 1989.

E’ Michelle il migliore dei mondi possibile? Gli sciatti inviati della stampa italiana descrivono una campagna elettorale dai toni entusiastici che non esiste. La campagna (si legga Ivonne Trías) è al contrario noiosa e continuista. Non solo non ci sono utopie ma neanche speranze. I vecchi militanti, quelli che sono sopravissuti all’ora dei forni, ti spiegano che votano per Michelle Bachelet perché è il meno peggio o ti mostrano l’esistente del disastro sociale cileno per giustificare con pudore la scelta dell’astensione. Alcuni intellettuali molto pubblicati e letti in Europa, Skarmeta, Sepulveda, rilucidano un po’ la realtà per il pubblico europeo. E’ bello pensare che una donna che giunge alla presidenza della Repubblica rappresenti un cambio per tutta la società, che fotografi una crescita che tanto più è macroeconomica tanto meno rappresenta progresso sociale.

Non bisogna avercela con Michelle Bachelet ma neanche santificarla come con l’insensata Bacheletmania che puntualmente sta contagiando i centrosinistra europei e la loro stampa. Se non bisogna avercela con Michelle bisogna avercela con la grande mistificazione che la Concertazione rappresenta e che si appresta a governare il Cile per il quarto mandato consecutivo nel totale continuismo.

Le cronache distratte degli inviati ci raccontano di donne mobilitate per eleggere Michelle, ma scordano colpevolemente di ricordare che tre giovani su quattro (donne ed uomini) con meno di 40 anni non sono iscritti alle liste elettorali. Allora quali donne sono coinvolte? E in quale processo sociale?

Le donne cilene devono essere orgogliose che Michelle Bachelet giunga alla Moneda. Ma quali donne cilene? Quelle con i natali giusti, quelle che hanno ricevuto un’educazione privata e si sono affrancate anche socialmente fino ad ottenere la follia (per la società cilena) del divorzio durante il mandato di Don Ricardo Lagos?

O quelle che lavorano come domestiche nelle case borghesi dalla mattina alla sera per pochi spiccioli? In nessun paese come il Cile ho mai avuto la sensazione così forte che fossi di fronte a due razze distinte e inconciliabili. Non solo in Cile esistono differenze e ingiustizie, ma solo in Cile avverti la precisa sensazione che nessuna ascensione sociale sia possibile, che la società sia stata scientificamente divisa in due. E’ così dai tempi di Pedro de Valdivia e solo Don Salvador rappresentò una speranza di cambio.

Il Cile continua ad essere il paese più ingiusto del mondo, o uno dei più ingiusti come puntualmente rilevano le statistiche dello stesso Banco Mondiale. Solo la Concertazione (ripresa beotamente dall’Internazionale Socialista) può vendere la favola di un paese più solidale. Solo penne scadenti possono vendere quello concertazionista come un modello “di sinistra”, più efficiente e alternativo a quello atlantico che osa criticare il Fondo Monetario Internazionale. Don Ricardo Lagos (si veda il mio bilancio sul suo mandato sul n. 93 di Latinoamerica in fase di stampa) magnifica il Cile “piattaforma esportatrice”, ma dimentica di dire che solo il 2% della mano d’opera è coinvolta nell’export.

Non solo i redditi sono maldistribuiti come in nessun’altro posto al mondo, ma nel mezzo c’è un buco nero incolmabile. Nessuno guadagna 1000 Euro al mese in Cile. O guadagni molto di più o guadagni infinitamente di meno.

Non sono a Santiago per questo ballottaggio, ma parlo tutti i giorni con Santiago. E conosco Santiago e per un periodo importante della mia vita ho rischiato di rimanerci per sempre. Non lo rimpiango, nel personale e nel sociale. Amo la mia Santiago, ma non mi piace questa Santiago tutta facciata che nello skyline sembra Seattle e nel cuore è la Pretoria dell’apartheid.

In questa calda estate australe mi sembra di vedere ogni fermata d’autobus. Centinaia di tossicosi autobus gialli (cinque o dieci volte quanti sarebbero necessari se non fossero stati privatizzati e sottoposti a un nefasto ed inquinante regime di concorrenza) sono assaltati ad ogni fermata da un esercito di venditori di ghiaccioli. Sono più dei passeggeri, dieci, venti venditori di ghiaccioli ad ogni fermata in centro, un po’ meno in periferia e un ghiacciolo non costa nulla, 10-20 centesimi di Euro. Quanti ghiaccioli devono vendere per vivere? Quanto gli resta dei miei spiccioli? Quanti ghiaccioli al giorno dovrebbe mangiare un passeggero d’autobus?

Il vecchio demente non governa più da tre lustri. Ma la Concertazione non ha spostato di un millimetro l’impalcatura socio-economica pinochetista.
Oggi Michelle Bachelet avrebbe davanti a sé un’occasione storica, ma non ha nessuna possibilità di concretare il cambio necessario. Per la crescita abnorme della richiesta cinese, il prezzo del rame, che fino a due anni fa era precipitato per la scelleratezza dei governi concertazionisti (si veda: G. Carotenuto, «Cile – El cobre che fu nostro», Latinoamerica, Anno XXIV, n. 85, ottobre-dicembre 2003), oggi è alle stelle. Per motivi simili in Venezuela si sta costruendo da zero uno stato sociale che semplicemente non esisteva. Sarebbe possibile spostare una parte significativa del PIL sullo stato sociale, magari sottraendola a quel pozzo nero che sono le forze armate più costose del continente.

Michelle è animata da molta buona volontà ma non ha e non avrà il potere di cambiare lo stato delle cose e ricostruire ciò che fino al 1973 c’era e rappresentava una speranza concreta d’inclusione sociale e ora non c’è più non solo per colpa di Pinochet ma anche per colpa del suo partito, quello socialista, che governa dal 1989 con la DC. Il rame è del tutto privatizzato e lo stato non riesce neanche a farsi pagare dalle multinazionali le aliquote fiscali più generose al mondo.

17 anni di dittatura e 15 anni di democrazia fondomenetarista hanno blindato il neoliberismo, come afferma il mio amico Yuri Gahona, uno degli intellettuali giovani più importanti del paese: “qui c’è gente che pensa che il neoliberismo sia stato inventato dal padreterno insieme ad Adamo ed Eva. C’è gente che non sa più che un tempo il rame è stato nazionalizzato”. Il neoliberismo è nelle leggi, nella costituzione, ma ancora di più nella testa delle persone.

Quello che è possibile nel resto del continente dunque non appare possibile in Cile. I dati macroeconomici nascondono una realtà nefasta che prepara un futuro grigio per un paese che sta rapidamente dilapitando le proprie materie prime non rinnovabili. E Michelle, auguri comunque presidenta, non ci può fare nulla, neanche volendo.

PS Il quotidiano berlusconiano “Il Giornale”, molto contento della Bachelet, manipola la biografia di questa. Non sta bene parlar bene di qualcuno che durante la dittatura si è esiliata nella Repubblica democratica tedesca e allora l’esilio della Bachelet viene spostato ad Ovest, nella Germania Federale. Sarà un lapsus?

Il quotidiano La Repubblica, nella foga di magnificare la via cilena al neoliberismo e venderla come di sinistra, scrive che Michelle Bachelet sarà la prima donna latinoamericana presidente della Repubblica. Mi sono arrovellato a lungo sul perché di un errore così marchiano da parte di un giornalista esperto come Omero Ciai.
Perché mai La Repubblica dimentica Violeta Chamorro e Mireya Moscoso? Perché non ha scritto sudamericana o meglio ancora americana, già che anche la patria della democrazia non ha mai avuto un presidente donna? Ma non si può citare Mireya Moscoso senza citare un nome scomodo come quello del terrorista Luís Posada Carriles. Un nome sul quale il quotidiano La Repubblica è particolarmente prudente. I miei retropensieri sono tutti andreottiani. A pensar male si fa peccato…