Femminicidi: Meredith Kercher e Giovanna Reggiani, se il colpevole è il negro o lo zingaro è più facile fare giustizia

Ieri Rudi Guede è stato condannato a trent’anni di carcere in quanto colpevole di stupro e assassinio di Meredith Kercher a Perugia. Parallelamente è stato chiesto l’ergastolo per Romulus Nicolae Mailat, con ogni probabilità stupratore e assassino di Giovanna Reggiani a Roma. Sono due crimini orribili e due condanne (se anche quella di Mailat sarà confermata) ineccepibili anche per gravità. Di sicuro l’esposizione mediatica ha in questi casi favorito una giustizia rapida e senza tergiversazioni ed evitato che le difese potessero attuare tattiche dilatorie.

Resta la considerazione, scomoda, che sia molto più facile far giustizia per un femminicidio in Italia quando il colpevole è un outsider, il negro o lo zingaro, e molto meno facile quando è un insider, un membro della comunità. Perciò vedremo (senza prevenzione) se sarà usato lo stesso metro per il ragazzo borghese difeso dall’avvocatessa e parlamentare di grido (Raffaele Sollecito e Giulia Buongiorno) o per la bella americanina (chissà perché usano il vezzeggiativo, come fidanzatini) Amanda Knox.

Sheryl Grana ha studiato come: “i femminicidi sono ignorati o sensazionalizzati a seconda della razza, classe sociale e attrattiva della vittima”. E’ una costatazione che ci porta a concludere che la rappresentazione mediatica del femminicidio elude sempre i contorni e la portata del fenomeno per ragionare con i canoni dell’infotainement, dell’informazione intrattenimento. Esistono femminicidi glamour, per pruriti sessuali o speculazioni politiche, e altri che è interesse di troppi sopire. Esistono femminicidi con vittime e colpevoli perfetti e ne esistono altri che non corrispondono all’allarme sociale fatto percepire dall’opinione pubblica.

E quindi non sorprende che non vi sia alcun interesse né esposizione mediatica per il processo a carico del rispettabile dentista Raffaele Caposiena, accusato di avere assassinato a martellate la sua convivente ecuadoriana di 21 anni, Sofia Margarita Varela Freire a Pesaro. O che sia calata una cortina di fumo sul processo agli assassini di Lorena Cultraro, la quattordicenne di Niscemi stuprata in gruppo, assassinata e buttata in un pozzo. O che sia in corso la più cinica delle speculazioni intorno al caso di Barbara Cicioni, incinta di otto mesi, ammazzata di botte dopo anni di maltrattamenti dal marito Roberto Spaccino (che aveva accusato “una banda di albanesi”), in maniera evidentemente premeditata, di nuovo nel perugino.

Chissà come finiranno i processi per tutti gli almeno 107 femminicidi commessi in Italia nel solo anno 2007, la stragrande maggioranza dei quali non merita neanche una breve in cronaca. Sono 126 con quelli di gennaio 2008 (101 erano stati nel 2006) e sono stati studiati da Sonia Giari in un documento eccellente che i giornalisti che si occupano di questi casi dovrebbero mandare a memoria: La mattanza. Femminicidio ricerche sulla stampa italiana nell’anno 2007. La lettura dello studio di Sonia Giari, che elenca sommariamente tutti i casi, conferma quello che si conosce ma che i media tradizionali nascondono sistematicamente all’opinione pubblica e che quindi il giornalismo partecipativo ha il dovere di far notare ogni volta che può.

Il 35% degli assassini (o presunti tali) è il legittimo consorte della donna uccisa. Addirittura i tre quarti delle donne sono uccise da un familiare. Oltre al marito (e padri, figli eccetera) c’è il fidanzato, l’amante, ma soprattutto l’ex. Tutti uccidono per i motivi arcaici di sempre, possesso, onore, sapere di avere la forza come arma per sostituire la ragione. Del quarto rimanente la metà dei crimini è commesso da amici e conoscenti. Quindi solo un femminicidio su otto in Italia, circa uno al mese, è commesso da sconosciuti. Ed è molto più comune che un uomo italiano, come nel caso di Sofia, uccida una donna straniera che il caso di un uomo straniero, possibilmente di razze inferiori, negri o zingari per capirci, che uccida “le nostre donne”.

Non basta. Sofia, Lorena, Barbara sono tre delle decine di casi nei quali la nostra opinione pubblica sceglie o è indotta a fare il tifo per l’assassino senza neanche vergognarsene. Nel contesto spesso provinciale dei femminicidi nei sette ottavi dei casi l’assassino ha almeno altrettanti legami familiari e relazioni sociali della vittima. E’ un intreccio che genera omertà, il silenzio, l’elusione, soprattutto quando l’uomo è ricco, potente, influente.

E’ complice il complesso mediatico, sono senza ritegno i legulei che falsificano contesti insinuando colpe di chi non si può più difendere, è colpevole lo squallore della politica che fabbrica consenso andando a caccia del nemico esterno. E l’opinione pubblica, il peso delle culture dominanti, non sono ininfluenti nei percorsi di impunità. Generano impunità. I processi per femminicidio stessi stanno modificandosi e in peggio. Fino a pochi anni fa le difese puntavano sull’infermità mentale, sull’incapacità di intendere, sul raptus di follia. Adesso le difese puntano dritte sull’impunità. E’ una strategia che paga e in genere trova un’opinione pubblica disponibile. Se lo possono permettere.

E’ infatti una strategia interna alla cultura troglodita, arcaica nonostante la nostra apparente modernità, per la quale l’omo è omo e la donna provoca. Ed è una cultura che nell’attuale fase storica non può che portarci ad ulteriori regressioni visto che viviamo in una società dove la gerarchizzazione della quale è sempre più caratterizzante. C’è un caso simbolico in questo, anche se per pura casualità non si concluse con la morte, successo nella tranquilla provincia di Macerata.

Nell’estate del 2006 Bruno Carletti, direttore artistico del teatro della città, massacrò di botte l’ex moglie, Francesca Baleani. Credendola morta ebbe la lucidità di disfarsi del corpo. La chiuse in un porta abiti, la caricò in macchina, e la buttò in un cassonetto dei rifiuti in un posto isolato. La donna si salvò per incredibili circostanze fortunate ma sul crimine di Bruno Carletti, ricco, potente, membro dell’establishment sociale e culturale della città, calò il silenzio. Lui, dopo poche settimane di carcere, riuscì a farsi affidare ad una comodità a pochi km di distanza e cominciò a pretendere perdono da lei e dalla città di essere riaccettato alla vita di prima, trovando nella migliore delle ipotesi occhi abbassati ma mai disprezzo dichiarato.

E così il femminicidio è la cartina tornasole di una società che sta tornando predemocratica e dove regnano gerarchia e ordine sociale. L’uomo può disporre della donna. Il ricco è sopra il povero. Il forte può abusare del debole. Il bianco può incolpare il nero. E’ così elementare e dicotomica la cultura dell’uomo bianco italiano senza differenze per una volta tra Nord e Sud. Uccide ancora per possesso o per onore come mill’anni fa. Sempre più spesso è lucido nell’occultare prove e cadavere, l’ha visto fare in diecimila telefilm. Poi si autoconvince, e trova un intorno sociale compiacente, di non meritare alcuna punizione: in fondo mica è un criminale, è un gran lavoratore, è un bravo ragazzo, una persona così per bene, salutava sempre, oramai la moglie l’ha ammazzata, mica può reiterare il reato, che ci sta a fare in galera, e poi anche lei… qualcosa avrà fatto lei perché lui reagisse così.

Il caso Spaccino è simbolico, come quello di Garlasco, dove l’intero paese fa quadrato intorno ad Alberto Stasi. Possiamo stupirci che centinaia di Bruno Carletti proprio non capiscano che senso abbia punirli? Ieri abbiamo fatto giustizia del negro e dello zingaro, ma il mostro è tra noi.

A questo link la sezione femminicidi del sito. Ha collaborato Barbara Spinelli.