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Jaime Avilés, con il neoliberismo oggi è tornato il Messico coloniale

A Felipe Calderón è sfuggito il paese di mano. Ci sono 16 milioni di disoccupati, l’inflazione è la più alta degli ultimi 12 anni e le bande dei narcos oggi controllano importanti città e intere regioni, da Chihuahua allo Yucatán, lasciando una scia di cadaveri, stragi alla luce del giorno, attacchi a installazioni militari, corpi decapitati, sequestri e vendita di protezione a innumerevoli negozi, da innocenti taquerías a rumorosi antri di table dance. Tutti lo dicono, lo sanno, lo palpano: questo piccolo «governo», che è stato solo una caricatura senza humour né grazia, è sparito fra le zampe dei cavalli, la mancanza di professionalità, l’improvvisazione, l’intreccio di complicità e la mancanza assoluta di un progetto nazionale. Al principio, sulle rovine del modello social-democratico del vecchio Pri, ci obbligarono a bere le medicine «amare ma necessarie» del Fondo monetario internazionale. Il presidente Miguel de la Madrid (1982-1988) mise all’asta le più di mille imprese che formavano il patrimonio della nazione. Salinas de Gortari (1988-1994) consumò la svendita. Ernesto Zedillo (1994-2000) vendette le ultime ferrovie e la compagnia statunitense che le ha comprate lo ha nominato amministratore. In soli quindici anni, il neo-liberismo ha prodotto una concentrazione di ricchezza così ingiusta come quella del Messico coloniale. Quando un gruppetto di ricconi si impadronì di quasi tutte le imprese di stato – con l’eccezione di Pemex e della Comisión Federal de Electricidad – il presidente Salinas «aggiustò» la Costituzione così che Vicente Fox potesse succedergli, anche se non subito. Secondo i dati ufficiali della Auditoria Superior de la Federación , Fox «restituì» ai maggiori imprenditori del paese quasi 60 miliardi di dollari. Questi non esitarono ad appoggiarlo quando cercò di incarcerare Andrés Manuel López Obrador nel 2005 né a finanziare la frode elettorale del 2006; sapevano che un’eventuale vittoria del candidato di centro-sinistra avrebbe comportato la fine di quello scandaloso privilegio. Dichiarato presidente grazie soprattutto alla spinta decisiva del club dei ricchissimi, Calderón ha mantenuto la politica foxista di non infastidirli con questioni tributarie: nel primo semestre del 2008 ha già restituito loro circa 9 miliardi di dollari sotto la voce di «incentivi fiscali». Sono tutti soldi che provengono dalle vendite eccedenti del petrolio, vale a dire soldi liberi da impegni che Pemex ha ricevuto grazie all’aumento costante del prezzo degli idrocarburi. Per non aver investito queste risorse in opere produttive, in creazione di posti di lavoro e in sviluppo di infrastruttura in Messico, Fox e Calderón sono responsabili della più bassa crescita economica dell’America latina, perfino inferiore a quella di Haiti, che è una delle nazioni più povere del mondo. In questi anni, tutte le ricchezze si sono concentrate in poche mani. La miseria e la mancanza di orizzonti hanno spinto milioni di messicani a emigrare illegalmente negli Stati uniti, mentre l’economia parallela della droga reclutava centinaia di migliaia di giovani dalle campagne, dalle periferie delle città e ora anche dalle classi medie per formare le legioni dei sicari dei narcos. Nella manifestazione di sabato contro la violenza e la criminalità hanno marciato molti cittadini di tutti gli strati sociali per chiedere le dimissioni del governo federale per la sua corruzione e incapacità manifesta. Ma sono sfilati anche alcuni dei principali beneficiari delle politiche degli ultimi governi. Hanno marciato per ripudiare la violenza della criminalità organizzata e l’impotenza delle autorità. Sono gli stessi che si beneficiano della restituzione delle imposte e vogliono comprare Pemex. Quattro anni fa appoggiarono il tentativo di incastrare Amlo, poi finanziarono la campagna di odio che polarizzò il paese e benedissero i brogli elettorali del 2006, un vero colpo di stato. Ora, usando politicamente la paura, l’angoscia, il dolore e la desolazione che affliggono anche i loro parenti e amici, chiederanno che si installi una specie di dittatura militare, con l’esercito nelle strade e l’abolizione delle garanzie individuali, come misura estrema per evitare che Calderón cada di fronte all’evidente insoddisfazione popolare. ©La Jornada (testo originale in spagnolo) [1]/il manifesto [2]