Perché sulla Bolivia è calato il silenzio

La presidente del Senato, Eva Copa, indigena e femminista.

Il golpe in Bolivia, con l’appoggio del sistema mediatico, ha abbattuto una dittatura che esisteva solo nelle fake news, ed è stato costruito per rappresentarsi come istituzionale e democratico, anche se “golpe democratico”, tanto più con i morti in strada e l’UNHCR che accoglie i rifugiati, è un ossimoro irricevibile.

Riassumiamo molto sinteticamente. La prima parte è stata costruita a partire dalla stigmatizzazione, distruzione dell’immagine, demonizzazione di Evo Morales, trasformato (qui la sua character assassination) in una specie di mostro for export, l’autocrate, il narcoindio (se non è razzista l’espressione “narcoindio”…). Rappresentato Evo Morales come il nuovo male assoluto, il secondo passaggio è stato far passare un governo legittimo come illegale (i presunti brogli che, nella sua preveggenza, la OEA ha denunciato da prima che accadessero e smentiti da fonti ben più autorevoli) e liberarsene con la violenza. Era il golpe che non c’è, almeno per i grandi media.

Ora siamo alla terza fase, quella della normalizzazione che implica la rappresentazione dell’ex-opposizione, trasformatasi in “governo di fatto”, come espressione pulcra e senza ombre di quella liberaldemocrazia occidentale così incapace di autocritica, quanto capace di gettare la croce addosso a chiunque le faccia ombra, come è accaduto in Bolivia e in America latina nel XXI secolo. Finora è andata loro bene. Hanno convinto tutti o quasi che non fosse un golpe e che tutte le responsabilità fossero esclusivamente dell’indio disubbidiente. Parliamoci chiaro: si sono allineati più o meno tutti. A parte Bernie Sanders, a quale politico conviene nel 2019 sprecare un tweet per difendere gli indigeni boliviani?

Ma la realtà può essere travisata solo fino a un certo punto. Il problema è che la loro “rivoluzione colorata”, quella per giustificare la quale la quale la OEA aveva messo nero su bianco che vi fossero imprecisati brogli gravissimi senza neanche aspettare metà scrutinio, si sia ben presto trasformata in un incubo di ex abrupto.

COSE SULLE QUALI I GIORNALI GLISSANO

a) Al primo posto, va da sé, i gorilloni militari tirati fuori dalle caserme con un decreto legge che promette loro l’impunità, esattamente come quelli che emanavano le dittature di un tempo. Lo ripeto forte e chiaro: in America latina gli anni Settanta non sono più riproponibili: NUNCA MÁS. Però almeno 24 morti e un migliaio di imprigionati sono tanti, anche se la vita degli indigeni boliviani vale poco per la stampa occidentale.

b) Nelle zone bianche, ma non solo, ha causato dolore e scandalo il sistematico distruggere e bruciare la wiphala, la bandiera dell’integrazione tra i popoli, che i bianchi invece odiano, perché si considerano al di sopra dei popoli, a mostrare la natura razzista del golpe.

c) Che è confermato, al terzo punto, dalla scelta di una presidente autoproclamata presa dal mazzo, Jeanine Áñez. È una politica di serie B di un partito di estrema destra col 4% dei voti, così debole e illegittima da essere famosa soprattutto per il fondamentalismo religioso e per i tweet ultrarazzisti contro la maggioranza dei boliviani. È stata scelta per non compromettere i veri capi del golpe che anzi, al momento opportuno, verranno rappresentati come uomini del dialogo.

d) Ciò comporta (quarto punto) le minacce (di arresto, di persecuzione) a chiunque non si adegui, siano voci critiche boliviane o quel po’ d’informazione non allineata, bollata come sediziosa. Voglio citare due delle voci in queste ore oggetto di minaccia. La prima è Eva Copa (foto), indigena e femminista di El Alto, presidente del senato del MAS, oggetto di una campagna d’odio sessista e razzista ripugnante. La seconda è l’83enne cardinale Toribio Ticona, anch’egli pubblicamente minacciato dai golpisti. Le ha tutte per attrarre l’odio delle destre, ancorché cristianissime: è un indigeno quechua, ha sempre vissuto in povertà assoluta, ha accusato le destre stesse di essere responsabili della violenza, ed è perfino amico di Papa Francesco. Non ci sono più i vescovi di una volta in America latina che benedicono i golpisti né i papi che si affacciano al balcone con Pinochet.

e) Infine c’è un ministro degli interni di fatto, Arturo Murillo, che proclama la “caccia all’uomo” (cit.) per tutti i membri del governo Morales e per tutti i parlamentari del MAS. Molti (difficile capire) sono entrati in clandestinità o si sono rifugiati nelle ambasciate, o hanno visto le loro case saccheggiate o bruciate. L’UNHCR ha emesso un appello ufficiale ad accoglierli che però non ha sfondato il muro del silenzio calato sull’intera vicenda boliviana, perché semplicemente i media, gli editorialisti che si sono lanciati come iene contro Evo Morales (colpevole di che?) non saprebbero come tergiversare e incasellare tali fatti. Sono partiti per silenziare e stigmatizzare le ragioni della sinistra, per chiosare la fine dei governi progressisti in America latina e hanno continuato tacendo sui crimini della destra. Come hanno sempre fatto; non mi stancherò mai di ripetere che il Corriere, Il New York Times eccetera dicano di Chávez o Kirchner o López Obrador o Evo Morales esattamente le stesse cose che dicevano di Allende nel 1973. Balle certificate.

LE CONDIZIONI IN CUI LA DESTRA VUOLE CHE SI VOTI

L’unico argomento che resta al governo Áñez, e a chi lo difende, è allora la sua transitorietà, il fatto che ormai sia lì, e il suo essere vincolato a un rapido ritorno al voto. Tale ritorno alle elezioni, sul quale al momento non vale la pena dubitare, è però vincolato a una serie di passaggi che condizionino a tal punto il prossimo voto da produrre come ovvia conseguenza la vittoria delle destre stesse. Ciò traccia una agenda e delle condizioni precise sulle quali è bene essere chiari:

1) L’eliminazione di Evo Morales dalla partita. Al di là delle campagne di demonizzazione, la verità è che nessuno può cancellare nelle masse boliviane il grande avanzamento degli ultimi 13 anni in termini di diritti civili e di miglioramenti economici identificato col suo governo. Anche se è normale lo sfilacciamento e la critica dopo 13 anni di governo, la verità è che il paese sa che la Bolivia di Evo Morales sia andata come un treno. Evo ha appena preso il 47% dei voti (il golpe lo hanno giustificato attaccandosi ai decimali) e nessuno sa davvero se i fatti di questo mese lo hanno rafforzato o indebolito. Di sicuro da una parte della base la consegna che continua a venire è per il ritorno, che, piaccia o no ai liberaldemocratici europei, di Evo che continua a incarnare una sintesi tra le distinte anime del movimento, popoli indigeni, sindacati, sinistra tradizionale. Visto dall’Europa questo è un errore. Ma l’Europa non è l’unico punto di osservazione della realtà boliviana, e neanche il migliore.

2) Disinnescare il potere legislativo che è tutt’ora pienamente in carica. L’ex-presidente Tuto Quiroga (violatore di diritti umani e dimostrabilmente corrotto fino al midollo), pretende di convocare le elezioni per decreto, esautorando completamente il parlamento eletto legalmente non il 20 ottobre 2019, ma nel 2014 e che scade tra due mesi, a fine gennaio. Al momento di scrivere in Bolivia convivono un potere legislativo legale e un potere esecutivo di fatto. Non sfugga a nessuno che, visto da destra, sia una situazione identica a quella venezuelana. Ma qui l’Occidente trae conclusioni opposte e sta con l’esecutivo contro il legislativo. Chissà perché.

3) Proscrivere o debilitare il più possibile il MAS. La proscrizione del partito di maggioranza sarebbe il segnale definitivo che le destre siano disposte alla guerra civile pur di riprendersi la Bolivia. Áñez demanda la decisione ai tribunali e l’obiettivo delle destre è quello. Sarebbe la proscrizione di un grande partito popolare presente capillarmente in tutto il paese, legale, legalitario, che ha governato in pace per 13 anni e che è ancora maggioranza più che assoluta in tutta la parte andina. Che elezioni sarebbero senza il MAS? Come si giustificherebbe? I latinoamericanisti sarebbero costretti a compararlo al 1955 argentino, la Revolución libertadora che doveva eliminare il peronismo dalla faccia della terra. 64 anni dopo, dopo svariate dittature, elezioni con il peronismo proscritto perché altrimenti avrebbe vinto e un genocidio, il peronismo ha appena stravinto le elezioni.

4) Ove la proscrizione non prosperasse, è già in corso il processo di debilitazione del partito per metterlo in condizione di competere con le mani legate. Senza leader, con ministri e parlamentari che devono temere per la loro libertà e la vita loro e delle loro famiglie, qual è l’agibilità politica che il regime di fatto garantisce al partito di maggioranza? Questo in questi anni ha generato con grande difficoltà quadri provenienti dal campo popolare, portatori di istanze comunitarie, di comunità isolate, a volte arretrate, con poca formazione. Né i leader, né i quadri si inventano, questo lo pensano solo i 5S, per i quali uno vale uno. Perché mai il MAS dovrebbe rinunciare ai dirigenti più esperti, affidabili, noti? Perché mai si dovrebbe votare essendo il maggior partito oggetto di persecuzione? Quanti punti vale, in termini elettorali, l’eliminazione delle figure visibili, delle teste pensanti, dei leader comunitari nei quali gli elettori hanno fiducia?

5) Ultimo punto. Nominare e controllare pienamente un nuovo Tribunale elettorale, anche qui esautorando il parlamento, per decreto. Quelli che hanno denunciato i presunti brogli di Evo si predisporrebbero a controllare loro le elezioni, contando nuovamente sulla complicità degli osservatori infedeli della OEA che potrebbero fin da oggi certificare la regolarità fino all’ultima scheda di elezioni delle quali non si sa neanche la data. Firmato Almagro ovviamente. Denuncio fin d’ora: elezioni controllate dal gatto e la volpe, un tribunale nominato dal governo di fatto, senza avallo parlamentare e garantite dalla OEA, sarebbero una farsa.

Questo è lo stato attuale della cucina boliviana: preparare la legittimazione del fraude futuro. D’altra parte – e chiudo – il governo che si è formato, a cominciare dall’autonominata Añez, è un governo di peones, personaggi di seconda fila, caratterizzati per un estremismo di destra esacerbato, quasi caricaturale. I pezzi da Novanta, Carlos Mesa e Luís Fernándo Camacho, giocano un’altra partita, la loro partita, come ciclisti in surplace. Non possono non appoggiare, anche pubblicamente il governo, ma senza farsene schiacciare né rischiare di farsi carico dei crimini contro l’umanità e le sicure malversazioni che questo sta commettendo. Al momento opportuno, se le cose si metteranno bene per loro e male per la maggioranza dei boliviani, vedremo chi avrà il colpo di reni per prendersi la Bolivia intera.