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Sul massacro (vero o presunto) degli indigeni Pemones in Venezuela

Cosa è successo con gli indigeni Pemones al confine col Brasile in Venezuela? Le responsabilità della Guardia Nazionale Bolivariana sembrano chiare, ma la costruzione simbolica dei fatti impone fermarsi a riflettere.

Vi sono molte narrazioni di violenza nell’ultima settimana in Venezuela [1], caricati in automatico sulle spalle del perfido Maduro, in particolare da organi d’informazione monopolisti e giornalisti che scrivono da molte migliaia di km senza conoscere né i luoghi, né i fatti, né la lingua, mentre l’opposizione sarebbe per definizione sempre civile e vittima innocente. Ve n’è uno in particolare che però lascia perplessi chi – come chi scrive – dalla verità non ha nulla da temere.

Ho già scritto dell’indubbia messa in scena degli aiuti di USAID, che tutti i media internazionali hanno considerato bruciati dai chavisti, e che invece sono stati bruciati in territorio colombiano da guarimberi di professione, armati dall’opposizione in favore di telecamera. Tale episodio, chiaro ed evidente, però non permette di attribuire tutte le responsabilità a una parte sola.

C’è però un altro episodio controverso, e più grave, visto che avrebbe causato cinque morti accertati, ma molti di più secondo fonti non verificabili, che lungi dall’interessare particolarmente il sistema informativo monopolista, chiama in causa il dovere di tutti noi di informarsi correttamente. Si tratta del presunto massacro degli indigeni Pemones avvenuto nei giorni 22-23-24 febbraio nello Stato Bolívar, nel Municipio di Gran Sabana, alla frontiera col Brasile, in particolare nel settore dove vive l’etnia Pemón.

I fatti noti sarebbero che i Pemones, circa 30.000 persone tra Guyana, Venezuela e Brasile, che sono rappresentati in parlamento (la Costituzione chavista per la prima volta nella storia ha garantito alle comunità indigene rappresentanza e diritti) da un deputato Pemón dell’opposizione, si sarebbero in parte schierati con l’opposizione e a favore di Guaidó e si sarebbero disposti, almeno in parte armati, a tenere aperta la frontiera col Brasile per fare passare i cosiddetti “aiuti umanitari”.

Come tutto il Venezuela la comunità Pemón è spaccata tra chavisti e antichavisti e – prima dei fatti – il Consiglio generale dei Caciques del Pueblo Pemón ha emesso un comunicato per sottolineare che chiunque avesse partecipato a manifestazioni pro-Guaidó poteva farlo a titolo personale, ma non era autorizzato a rappresentarsi come popolo Pemón. È un dettaglio importante ma che non sposta la questione della violenza, visto che, come Pemón o come semplici cittadini, il diritto a manifestare pacificamente, o quello a una repressione proporzionata in caso di violazione della legge, dovrebbe essere sempre garantito.

In questo contesto si sarebbe arrivati allo scontro con la Guardia Nazionale Bolivariana che avrebbe causato cinque morti tra i civili. Va da sé che chi scrive non è in grado di contestualizzare le singole morti. Si tratterebbe però di un episodio gravissimo nel quale la responsabilità dell’esercito sarebbe pesante e non eludibile. In questo contesto vi sarebbe stato il sequestro di un ufficiale della GNB ma – per esperienza millenaria – quando i morti sono di una parte sola, la parte che mette le pallottole ha una responsabilità prevalente o totale rispetto a chi mette le vittime.

Chi scrive ha sempre segnalato, quando lo ha ritenuto plausibile, le responsabilità dei militari e della polizia bolivariana in fatti di violenza (nel 2017 tale responsabilità appariva evidente in circa un terzo delle morti della guarimba, che invece i monopoli mediatici attribuivano per intero a Maduro). In questo caso è allora credibile che vi siano gravi responsabilità della GNB all’interno di un confronto armato con cittadini disposti alla violenza, laddove l’essere indigeno non vuol dire non essere cittadini responsabili di fronte alla legge. Dal governo di Caracas non ci sono commenti, né ammissioni, né prese di posizione a difesa dell’operato dell’esercito. L’uso sistematico dei falsi positivi da parte dell’opposizione rende tutto molto complesso, ma è impensabile che nel mezzo della selva dello Stato Bolívar non sia successo nulla, e che la GNB (che d’altra parte nell’ultimo mese ha fatto un uso della forza che possiamo definire controllato, tanto da evitare che l’opposizione potesse parlare di repressione generalizzata) sia totalmente esente di responsabilità.

Va aggiunto un dettaglio finale, mentre le luci dei media monopolisti tornano a spegnersi sul Venezuela dopo che il circo Guaidó non ha dato soddisfazione [1]. Senza possibilità di maggior verifica, anche lo scontro con i Pemones è stato incanalato nella costruzione strumentale e razzista dei fatti sul Venezuela. Alcuni media internazionali hanno parlato più o meno a caso di decine di morti e la parlamentare europea dell’ALDE Beatriz Becerra ha speso (e qui mi sento di dire totalmente a sproposito) l’espressione “pulizia etnica”. Questa è evidentemente causale possibile di intervento militare, basta pensare al Kosovo, e pertanto Becerra, che è da tempo impegnata nella lobby della guerra, non usa l’espressione a caso. Sarebbe la prima volta che per la “pulizia etnica” di un popolo originario americano qualcuno (finalmente?) si muova.

Soprattutto però i Pemones, nella costruzione simbolica paternalista che fanno dei fatti i media internazionali, vengono sostanzialmente descritti come incapaci di intendere e di volere (subumani inermi, ingenui e innocenti attaccati a tradimento dai perfidi trinariciuti chavisti armati fino ai denti) e di prendere partito ed essere eventualmente responsabili delle loro azioni. Lo scrivo da molti anni: a noi europei “gli indianini e i negretti” ci piacciono solo in quanto vittime. Quando prendono in mano il loro destino, non ci piacciono più.