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Maurizio Matteuzzi: la balla di Liberazione, Corriere e Repubblica sul militarismo latinoamericano

salviamo-il-manifesto-grand [1] Ci siamo occupati per anni dell’invenzione [2] di un pericolo militarista latinoamericano (leggasi venezuelano), una dimostrabile balla colossale inventata di sana pianta e propagandata dagli Stati Uniti e ripresa pedissequamente e senza alcuna verifica dai media.

Oggi tanto riemerge materiale falso e tendenzioso sul Venezuela bolivariano, o addirittura del pericolo bellico rappresentato dagli indigeni della Bolivia e altre menzogne alla quale la stampa mainstream (Liberazione, Corriere, Repubblica, tutti nel mazzo) si prestano volentieri. Questo ottimo articolo di Maurizio Matteuzzi sul Manifesto [3] di ieri, accoppiato ad un ottimo pezzo di Astrit Dakli [4] fa il punto della situazione ad oggi.

Con Raúl e Chávez (sinistra militarista) presi nel mezzo – Maurizio Matteuzzi – Il Manifesto

L’anno scorso il sotto-segretario aggiunto del Pentagono, Stephen Johnson, aveva detto che pur avendo ogni paese il diritto di provvedere alla propria difesa, «il Venezuela aveva passato i limiti di quel diritto».

Qualche giorno fa il generale Norton Schwartz in un’audizione al senato degli Stati uniti, aveva ammonito Mosca a non dare seguito alle voci ricorrenti della riapertura della vecchia base di Lourdes, vicino all’Avana, chiusa dai russi nel 2002, per farne una «forward landing airfield», una stazione d’atterraggio avanzata per il rifornimento dei bombardieri strategici russi – dotati di missili nucleari – in azione di pattugliamento perenne nell’Atlantico vicino alle coste degli Stati uniti. Perché così facendo Cuba avrebbe passato «la linea rossa» della «sicurezza nazionale degli Stati uniti».
Testimoniando il 18 luglio davanti al subcomitato della Camera Usa per gli affari dell’emisfero occidentale, Norman Bailey, ex responsabile del «programma» Cuba e Venezuela della National Intelligence, ha ribadito che il paese di Hugo Chávez costituisce una minaccia «chiara e immediata» per la sicurezza degli Stati uniti. Bailey ha criticato «la passività» dell’amministrazione Bush rispetto al Venezuela, spiegata in genere con l’argomento non privo di peso che qualsiasi mossa avventata – tipo l’effimero golpe padronal-sindacale dell’aprile 2002 contro Chavez – o è definitiva o rischia di avere effetti catastrofici quantomeno sul prezzo già stellare del barile. Se fosse per Bailey gli Usa dovrebbero piazzare un bell’embargo contro l’import di greggio venezuelano (fra 1.5-2 milioni di barili al giorno), rassegnandosi a liberare un paio di milioni di barili/giorno dalle loro riserve strategiche ma nella consapevolezza che per il Venezuela «l’effetto sarebbe devastante».
Raul Castro non ha neppure risposto al botta e risposta russo-americano – e questo suo «degno» silenzio è stato elogiato dal vigile fratello Fidel (qui sotto). Anche ammesso e niente affatto concesso che i russi fossero tentati da una ripetizione in chiave post-moderna della crisi dei missili Kennedy-Krusciov del ’62, è molto improbabile che Raul impegnato con bruttissime gatte da pelare rispetto alle riforme economico-politiche non più rinviabili, voglia lanciarsi in un’avventura in ogni caso ad altissimo tasso di rischio, dopo essersi detto più volte disponibile, nel suo primo anno da numero uno, a intavolare negoziati con l’amministrazione Usa all’unica condizione che siano «da pari a pari».
Anche Chavez, che al contrario di Raul è molto loquace e non perde occasione per rispondere alle critiche dell’amministrazione Usa o per ricoprirla d’improperi, ha ufficialmente smentito, dalla Bielorussa, l’affermazione che alcune agenzie gli avevano attribuito durante la sua visita in Russa, circa l’intenzione di concedere una base militare ai russi in Venezuela. «E’ totalmente falso».
Chavez è esuberante ma non è matto. Una cosa è una base militare, un’altra è una cooperazione economico-commerciale-energetica sempre più spinta e un’altra ancora uno shopping di armi. Che il leader venezuelano rivendica come un suo diritto. Anche comprando armamenti per 2 o 3 o 5 miliardi di dollari, è sempre difficile accusarlo di aver «superato i limiti» del diritto di ogni paese di provvedere alla propria difesa, come sostenne il sotto-segretario aggiunto Johnson, e di aver scatenato la «corsa al riarmo» in America latina.
Per almeno due ragioni. Primo che il Venezuela si è rivolto inizialmente a Spagna e Brasile e solo in terza battuta alla Russia – da cui ha già comprato armamenti per 4 miliardi di dollari fra il 2005 e il 2007 -, dopo che Washington aveva imposto l’alt a Madrid e Brasilia forte del fatto che alcune delle componenti di quegli acquisti erano made in Usa. E dopo che sempre Washington aveva rifiutato di sostituire o rimpiazzare gli armamenti in dotazione alle forze armate venezuelane, tutti di fabbricazione Usa, ormai vecchi di oltre 20 anni (come i 16 caccia F-16 di cui ormai solo 5 erano in condizioni di volare, o i fucili d’assalto FAL).
Secondo, che anche conteggiando i nuovi acquisti per «il riarmo», nel 2007 il budget del Venezuela per la difesa era, secondo l’International Institute for Strategic Studies di Londra, 2.6 miliardi di dollari, più o meno l’1% di un prodotto interno totale di 231 miliardi di dollari. Ancora: se negli ultimi 10 anni è le spese in armamenti sono cresciute in America latina del 30% (toccando i 34 miliardi di dollari nel 2006), secondo un altro insospettabile centro-studi, lo Stockolm International Peace Research Institute, il SIPRI, le spese militari del Venezuela chavista costituiscono mediamente l-1.5-1.6% del Pil. Sotto la media latino-americana (1.98%), del Brasile (1.78%), del Cile-paese-modello che con il 3.5% del pil per le spese militari sopravanza tutti gli altri della regione. Con l’eccezione (e per non parlare) della Colombia di Uribe che con il 4.7% del pil (6.3% se si considera anche l’apporti del Plan Colombia), più del 21% delle entrate di bilancio e della spesa pubblica assorbite dalla voce «difesa e sicurezza», è uno dei 10 paesi con maggiori spese militari al mondo.
Eppure è il Venezuela di Chavez a essere additato come il colpevole di aver scatenato «la corsa al riarmo» in America latina. Non solo da Bush. La famiglia Vargas Llosa, padre e figlio, sempre sulla prima linea del fronte della nuova destra, ha coniato la distinzione fra «la sinistra carnivora», troglodita e bellicosa – di cui Chavez, Morales e Correa, oltre ai fratelli Castro a Cuba, sono l’incarnazione – e «la sinistra vegetariana» – Michelle Bachelet, Lula, Tabaré -, amica del mercato e pacifista. Una distinzione su cui sono stati seguiti senza se e senza ma, in Italia, dai due giornali principe – il Corriere della sera e la Repubblica (ma anche soprendentemente da Liberazione) – che hanno scoperto in Chavez (e nei Castro) il simbolo della «sinistra militarista».