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Dopo le Olimpiadi, il Brasile al giorno decisivo per Dilma

Rioty [1]

Dopo trenta Olimpiadi ospitate dal Nord del Mondo (includendovi in un Occidente capitalista globale Tokio, Seul, Pechino, l’Australia, possiamo discutere su Messico 1968) le prime Olimpiadi sudamericane, celebrate in un Brasile simbolo indiscutibile del Sud del Mondo, sono passate alla Storia. Il dato di fatto è che, dal 1896 fino all’altro ieri, le Olimpiadi non erano state neanche pensabili in Sud America, e chissà se le nostre generazioni faranno in tempo a vedere Giochi in India o in Nigeria. Il dato di fatto è che il Brasile ha rotto un tabù e ospitato i Giochi, per sé e aprendo un cammino. Giova ricordare che le Olimpiadi sono la manifestazione che, nel bene e nel male, ha presentato al mondo nazioni che aprivano nuove fasi della loro Storia, dalla Germania nazista nel 1936, all’Italia del boom economico nel 1960, la Spagna della transizione e della democrazia nel 1992, fino alla Cina del 2008.

Con le contraddizioni che sono della nostra realtà – altrimenti le Olimpiadi fatevele sempre a Stoccolma – Río de Janeiro, la “cidade maravilhosa”, ha accolto con dignità e adeguatezza il mondo, mostrando il proprio lato migliore a chi lo voleva vedere e prestando il fianco a chi ne voleva confermare la subalternità e inadeguatezza (esemplare l’ignominioso caso del nuotatore USA Ryan Lochte che ha finto una rapina, contando sullo stereotipo negativo dalla sua parte). Messo tutto sulla bilancia, il Brasile infine ha ottenuto quella demistificazione della via lattea per la quale le Olimpiadi erano state volute dal Presidente Lula. Per un pubblico infinitamente più di massa di quello che sa decifrare l’acronimo Brics, il Brasile, una grande potenza in grado di mettere i satelliti in orbita, oggi è molto meno remoto e identificabile per qualcosa in più che non sia il calcio e il Carnevale.

Lula da Silva aveva pensato i Giochi Olimpici come coronamento pubblico di un’intera fase storica che, sul piano internazionale, rappresentava la riscrittura degli equilibri geopolitici della regione sudamericana, della proposizione di questa come un motore di un mondo multipolare nel quale il Brasile interloquiva da potenza globale. Era il simbolo dell’affrancamento dalla fase storica aperta negli anni Cinquanta col predominio del FMI, l’indebitamento indotto, le dittature, il neoliberismo reale. Purtroppo non tutto è andato per il verso giusto. Le Olimpiadi sono giunte troppo tardi, nel bel mezzo di una crisi politica con tratti sistemici, e non hanno testimoniato solo un traguardo storico raggiunto dal Brasile, ma anche il tetto di cristallo di quel processo politico e forse della possibilità stessa del superamento della divisione mondiale del lavoro che continua ad assegnare al Brasile e alla Regione un ruolo subalterno.

La scomparsa prematura dei due grandi alleati naturali di Lula nel processo d’integrazione continentale, Néstor Kirchner e Hugo Chávez, la fine dell’auge delle commodities, sulla quale i governi delle sinistre latinoamericane avevano contato per evitare uno scontro redistributivo con le élite al quale non si sono mai sentite pronte, molti errori e infine la crisi di consenso, hanno portato alla destituzione di Dilma [2] attraverso un impeachment surreale, con l’appoggio totale dei media egemonici. E’ un processo che rende realtà quanto nientemeno che Papa Francesco denuncia da tempo (ignorato): l’imminenza di “colpi di stato bianchi” nella Regione.

Quello brasiliano (preceduto da quello in Paraguay e da quello sanguinoso in Honduras) è di gran lunga il più importante. Da Caracas a Quito altri possono seguire e molti si preparano ad applaudirli. L’Argentina ha già cambiato segno. Lo ha fatto per libere elezioni ma nel segno della restaurazione e del revanscismo perfino rispetto ai diritti umani. Dell’inagibilità democratica del golpe parlamentare in Brasile è simbolo lo stesso presidente ad interim, Michel Temer, da fine mese con ogni probabilità pienamente nei suoi poteri fino a tutto il 2018. Un terzo dei brasiliani non ne sa fare il nome, non può farsi vedere in strada né negli stadi olimpici, nessuno lo ha eletto né lo eleggerà mai (avrebbe neanche l’1% delle aspettative di voto nei sondaggi), è membro di un partito che rappresenta il peggior clientelismo localista, governa ribaltando il segno politico del paese sancito dalle elezioni del 2014, in nome e per conto di poteri forti nazionali e transnazionali dei quali è mero esecutore. Temer, spalleggiato dall’argentino Mauricio Macri, è lì per liquidare l’eredità degli anni dell’integrazione regionale e della riduzione delle disuguaglianze. La battaglia già in corso per lo svuotamento del Mercosur, con il moderatissimo cancelliere uruguayano Nin Novoa che denuncia le pressioni della cancelleria di Brasilia per obbligarlo a votare per impedire la presidenza venezuelana, sono un fatto di cronaca. La visione geopolitica degli uomini di Temer riporta direttamente a quella della dittatura, quando il Brasile aveva scelto il suo posto nel mondo nel raccogliere le briciole concesse fungendo da gendarme regionale per conto degli Stati Uniti, come lo era stato nel XIX secolo rispetto alla Gran Bretagna. Dalla guerra del Paraguay negli anni Sessanta dell’Ottocento al Piano Condor dei nostri Settanta, quando agisce per interessi superiori, il Brasile ci ha più volte mostrato la faccia del più lugubre dei sicari.

Cos’è e cosa sarà il Brasile è in gioco da giovedì in avanti a Brasilia. Il Senato, definito dal New York Times come un consesso di canaglie, voterà se destituire definitivamente Dilma Rousseff e legittimare la presidenza Temer. La presidente legittima potrà difendersi lunedì 29, in quello che fin d’ora si annuncia come un discorso storico nel quale proporrà un referendum e una riforma politica complessiva. Le speranze sono poche, la posta in gioco è altissima.