- Gennaro Carotenuto - https://www.gennarocarotenuto.it -

La riforma che uccide l’Università

Secondo Il Giornale i docenti universitari lavorano un’ora al giorno e guadagnano 10.000 Euro al mese. Balle. Calunnie. Certe volte mi ritrovo in Skype con un’amica ben dopo la mezzanotte e stiamo entrambi ancora lavorando, scrivendo, correggendo tesi, preparando didattiche vicine e lontane. Lo facciamo con impegno, passione e perfino orgoglio per un’istituzione che pure siamo coscienti che cada a pezzi. Lo facciamo per uno stipendio di circa un settimo (1/7) di quello che ci attribuisce Il Giornale e non ci lamentiamo. Non sono un “figlio di” né un raccomandato, né un fannullone (al contrario) e sono stufo di essere calunniato da questo governo e i suoi sicari informativi.

Mi domando chi siano questi baroni da 10.000 Euro al mese e da un’ora al giorno di lavoro dei quali millantano i bugiardi de il Giornale. Dalle tabelle si evince che un ordinario di ruolo da 28 anni (cioè già ordinario nel 1980 e ancora in servizio, condizione nella quale si trovano poche decine o al massimo qualche centinaio di persone in tutta italia, tutte alle soglie della pensione) supera di poco i 6.000 Euro. E’ uno stipendio che il 90% dei docenti di ruolo non avvicinerà mai, neanche a fine carriera. E almeno la metà degli attuali strutturati (ovvero tutti gli associati con meno di una dozzina d’anni di carriera e il 90% dei ricercatori) non arriva alla metà di quella cifra, 3.000 Euro. Nel caso di tutti i giovani ricercatori strutturati nell’ultimo quinquennio (che chi scrive definisce i “cervelli in gabbia”) la cifra si dimezza ancora, 1.500 Euro.

Mi domando come è possibile contrastare queste continue campagne di diffamazione, false e tendenziose, finalizzate a distruggere non una categoria, di quello non mi interessa, ma un’istituzione fondamentale per il progresso civile e per la tenuta delle istituzioni democratiche come l’Università pubblica. Quell’Università pubblica che è l’unica istituzione in grado di mescolare le carte e dare nuova linfa a questa società bloccata dove chi è ricco comanda e chi è povero resta povero. L’Università è l’unica istituzione (in sinergia con la Scuola) in grado di permettere (art. 34 della Costituzione repubblicana) ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi di ascendere socialmente e avere possibilità di rinnovare la classe dirigente in questo sciagurato paese.

E’ contro l’Università pubblica e democratica, che con tutti i suoi difetti continua a fare la nostra democrazia, che va l’attacco di Gelmini, Tremonti, Brunetta e Berlusconi. Si sta alimentando rancore sociale, addirittura odio, e soprattutto disinformazione contro una presunta casta che esiste e va combattuta. Ma loro non vogliono colpire la casta, anzi sono alleati della casta, vogliono colpire l’istituzione democratica.

La riforma che uccide l’Università (segue Alberto Burgio – Vacanza universitaria, Manifesto, 22 luglio 2008)

FRANCESCO RAMELLA – La Stampa [1]

Le polemiche sulla giustizia hanno messo in secondo piano la discussione sulla sostanza della manovra finanziaria varata dal governo. Alcune misure riguardano il mondo dell’Università e della ricerca scientifica. In primo luogo, viene deciso un contenimento progressivo dei finanziamenti pubblici (fondo ordinario) per un totale di circa 1,5 miliardi nel prossimo quinquennio. Le università avranno la facoltà di trasformarsi in fondazioni private e ciò, nelle parole della ministra dell’Università, Mariastella Gelmini, dovrebbe favorire la raccolta di contributi e donazioni da parte dei privati. In secondo luogo, viene stabilito un blocco parziale del turn-over: fino al 2011 ogni 10 docenti che cesseranno il servizio ne saranno assunti due. Nel 2012, 5 ogni 10. Tenendo conto delle stime fornite dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario sulle uscite previste nel prossimo quadriennio (Rapporto 2007), ciò significa una riduzione di oltre 7.200 unità: quasi il 12% del corpo docente. La ministra ha presentato questi provvedimenti nei termini di una sfida positiva: «Le università, come il resto dello Stato, dovranno spendere meno, ma potranno spendere meglio». L’opinione dei rettori è, naturalmente, ben diversa: a loro avviso i tagli proposti dal governo sono di «portata (…) dirompente» e preannunciano un «progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato».
In realtà, quello che lascia più perplessi è la mancanza di lungimiranza di queste misure, tipiche di un Paese che sembra ormai incapace di pensare al proprio futuro. Negli ultimi anni il nostro sistema universitario è stato sottoposto ad un faticoso processo di riforma che ha coinvolto tutti i docenti. I frutti si iniziano ad intravedere e un sistema di valutazione nazionale – richiesto dagli stessi rettori – che collegasse i finanziamenti alle prestazioni dei vari Atenei, rappresenterebbe un significativo passo avanti. Quello che preoccupa è la mancanza di consapevolezza dello stato penoso in cui versa l’Università italiana, a causa di un cronico sotto-finanziamento e un deficit di ricambio del personale docente (tra i più vecchi d’Europa). Due difetti che la manovra va notevolmente ad aggravare, con risultati che rischiano di essere disastrosi per il nostro Paese. Nei nuovi scenari della competizione internazionale, lo sviluppo è legato a doppio filo agli investimenti nella ricerca e nella formazione.
Sotto questo profilo, l’Italia non soltanto è indietro rispetto alle altre economie industrializzate, ma rischia di aggravare ulteriormente il suo ritardo. Secondo l’ultimo rapporto Ocse (Education at a Glance 2007) spendiamo per l’università una quota pari allo 0,8% del Pil, contro una media dei paesi avanzati dell’1,3. Per ogni studente vengono impegnati mediamente 7.700 dollari (i dati sono riferiti al 2004 e calcolati a parità di potere di acquisto), contro una media Ocse di 11.100 (Spagna 9.400; Germania 12.200; Francia 10.700). Se è vero che i docenti di ruolo sono cresciuti nel corso degli ultimi 10 anni (del 26% tra il 1997 e il 2007: dati Miur), è però vero che siamo ancora molto distanti da un rapporto soddisfacente con il numero di iscritti. Nel 2005 in Italia c’erano 21,4 studenti per ogni docente universitario, contro una media dei paesi avanzati di 15,8 (Spagna 10,6; Germania 12,2; Francia 17,3). Peggio di noi fa soltanto la Grecia (30,2). In una recente intervista la ministra Gelmini – dopo aver rassicurato gli studenti che i tagli non si ripercuoteranno sulle tasse d’iscrizione – ha riassunto in quattro parole il futuro che si immagina per l’università italiana: internazionale, eccellente, meritocratica e trasparente. In poche parole, un sistema con pochi soldi ma ispirato da criteri di professionalità e competenza. Questi criteri, che condividiamo, dovrebbero però valere per tutti. A partire dalle più alte cariche di governo. Per il momento, per sognare, basta collegarsi al sito del governo spagnolo e scorrere la biografia della ministra dell’Università e dell’innovazione: dottore di ricerca in biologia molecolare, con un lungo curriculum di incarichi ai massimi livelli in prestigiose istituzioni pubbliche e aziende private che si occupano di ricerca e innovazione.

Alberto Burgio – Vacanza universitaria, Manifesto, 22 luglio 2008

“La destra attacca a testa bassa. La sceneggiatura inventata qualche mese da Walter Veltroni per aprire la crisi di governo non lo prevedeva.

Fantasticava di una destra ormai civilizzata. Come stessero in realta’ le cose e’ oggi sotto gli occhi di tutti: razzismo di stato; leggi ad personam come a bei vecchi tempi; attacco contro quanto resta dell’unita’ sociale e istituzionale del paese; guerra senza quartiere contro il lavoro pubblico e privato, e una politica economica fatta di frodi sull’inflazione reale e di tagli alla spesa e alle retribuzioni. Come sempre. Solo che adesso si infierisce su un popolo di poveri gia’ super-indebitati.

Difficile dire che succedera’ alla ripresa autunnale. C’e’ da augurarsi che, incalzata dalla sinistra sindacale, la Cgil dia finalmente segnali di resipiscenza, ma dovra’ vedersela con le altre confederazioni, tentate da una replica in pejus del famigerato Patto per l’Italia. Per parte sua, il Partito democratico si interroga se perseverare nella ricerca del dialogo o impegnarsi nell’opposizione, naturalmente “costruttiva”. Intanto vengono giu’ interi pezzi della Costituzione materiale e formale della Repubblica, trascinando con sé le sorti della nostra democrazia. Un’ennesima picconata la da’ in questi giorni il decreto legge 112, la “lenzuolata” scritta da Tremonti in combutta con Sacconi e Brunetta sulla quale il governo ha posto la fiducia temendo di non ottenerne, altrimenti, la conversione in legge entro il 24 agosto. Tra privatizzazioni, tagli alla spesa e agli organici pubblici, nuove misure precarizzanti e ricatti contro i “fannulloni” del pubblico impiego, il provvedimento contiene misure devastanti in materia di scuola e di universita’.

Il manifesto ha gia’ messo in evidenza i pericoli che incombono sul sistema scolastico, gia’ stremato da una politica di lesina che da anni colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a spesa per l’istruzione pubblica. Sara’ ulteriormente ridotto l’organico docente e ausiliario e si ridurra’ il tempo pieno. Al contempo si riprendera’ il progetto morattiano del doppio binario (scelta tra istruzione e formazione professionale gia’ a 14 anni) teso a reintrodurre la logica classista dell'”avviamento” cancellata nei primi anni Sessanta con l’istituzione della scuola media unica. Dopotutto, non aveva detto chiaramente Berlusconi che non sta né in cielo né in terra che il figlio dell’operaio possa avere le stesse ambizioni di quello dell’imprenditore o del professionista? L’universita’ non e’ messa meglio. Le Disposizioni per lo sviluppo economico (questo il titolo del dl nella beffarda neolingua governativa) prevedono tagli alle gia’ misere retribuzioni del personale docente e amministrativo; tagli agli stanziamenti (in aggiunta ai 500 milioni gia’ decurtati nello scorso triennio); limiti al turn over (nella misura massima del 20% dei pensionamenti per il trienno 2009-2011); massicci trasferimenti a favore di pretesi “centri di eccellenza” (a cominciare dall’Istituto Italiano di Tecnologia, guarda caso presieduto dal Direttore generale del Ministero dell’Economia) e, dulcis in fundo, la possibilita’ che le universita’ pubbliche si trasformino in fondazioni, spianando anche di diritto la strada a un processo di privatizzazione dell’universita’ italiana che da anni – grazie alle sciagurate riforme uliviste – marcia gia’ speditamente di fatto. Si presti molta attenzione.

Quest’attacco brutale non colpisce soltanto chi lavora nell’universita’ né solo chi vi trascorre alcuni anni della propria vita, peraltro pagando tasse sempre piu’ salate in cambio di un sapere sempre piu’ parcellizzato e disorganico. Il progetto del governo ha un respiro ben piu’ complessivo, una portata in senso proprio costituente. Ridurre al minimo il reclutamento di nuovi ricercatori significa precarieta’ a vita per quasi tutti coloro che ancora attendono di entrare in ruolo ed esasperazione delle logiche oligarchiche e baronali. Privatizzare il patrimonio degli atenei significa consolidare le propensioni e le pratiche neofeudali di ristretti gruppi di potere, sempre piu’ insofferenti al controllo democratico. E significa accrescere il potere di condizionamento del capitale privato (impresa e credito) sui percorsi di ricerca e sulla stessa didattica. Destinare risorse crescenti ai sedicenti centri di eccellenza significa promuovere un sistema di universita’ di serie A (per chi potra’ permettersele) e di serie B (per tutti gli altri), secondo il pessimo modello castale degli Stati Uniti.

Per l’ennesima volta la nostra “classe dirigente” conferma la propria levatura strapaesana, non esitando a sacrificare le prospettive di sviluppo del paese all’interesse di chi gode di posizioni privilegiate. Ma in questo caso l’attacco colpisce un fondamento della cittadinanza democratica. La scuola, l’istruzione, la cultura e la critica sono strumenti essenziali di partecipazione e di mobilita’ sociale. Per questo la Costituzione ne preserva liberta’ e pubblicita’. E per questo la destra al governo intende cancellarne il carattere di massa. Viene insomma al pettine uno dei nodi della primavera vissuta anche in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. C’e’ chi, per fortuna, se n’e’ accorto in tempo. Nelle universita’ si moltiplicano in questi giorni agitazioni, appelli alla mobilitazione e assemblee di studenti, docenti e precari. Ma non e’ ancora abbastanza. Occorre saldare al piu’ presto un fronte ampio che coinvolga massicciamente il corpo docente e tutti i dipendenti del sistema universitario pubblico. Questa controriforma non deve passare: dov’e’ scritto che agosto non possa essere tempo di lotta?”