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Partito radicale: i diritti umani alla RAI sono "cosa nostra"

Sta facendo molto rumore, dentro e intorno al servizio pubblico, un vero e proprio diktat [1] di Marco Pannella (nella foto in divisa da ustascia croato). Nella RAI dell’endemica lottizzazione, il Partito Radicale invece di combatterla ne pretende a gran voce una in più: i diritti umani. Questi sono un nostro specifico, tuona l’ustascia in questione, e solo noi abbiamo i titoli per occuparcene.

Lo storico capo radicale (che l’Opinione vuole senatore a vita) non si limita, in una sorta di editto bulgaro alla rovescia e in minore, ad indicare una carenza del servizio pubblico e a chiedere il rafforzamento di un singolo tema nei palinsesti radiotelevisivi. Fa molto di più Marco Pannella, pretende un programma televisivo, arriva a deciderne già il conduttore in un suo uomo, Walter Vecellio, e stabilisce perfino i temi dei quali il programma si può occupare: “il Tibet, il Darfur, la Cecenia, lo Zimbabwe”.

Infine il format Pannella lo pretende cotto e mangiato oggi stesso, da Romano Prodi, il capo del governo uscente contro il quale il diktat è pronunciato, e aspettatevi uno sciopero della fame e della sete prima delle elezioni se non dovesse essere accontentato. A questa straordinaria prepotenza lottizzatoria di Marco Pannella provano a replicare un po’ tutti, da Milena Gabanelli a Bruno Vespa, e perfino la voce del conduttore di Porta a Porta sembra più acconcia di quella del Partito Radicale.

Alcuni punti vanno evidenziati:

1) Il partito radicale (che oramai è in realtà solo un gruppo di interesse, una lobby), non ha alcun titolo per avocare a sé il copyright dei diritti umani in Italia del quale si occupano con dedizione e preparazione e soprattutto con meno parzialità, miriadi di soggetti, anche informativi, a partire da molteplice testate di giornalismo partecipativo. Del resto la parzialità, e di conseguenza l’inaffidabilità pretestuosa dei radicali sul tema dei diritti umani, è rivelato dallo stesso spudorato ordine del giorno pannelliano: “il Tibet, il Darfur, la Cecenia, lo Zimbabwe”. Neanche per sbaglio Pannella cita l’Iraq, dove da Abu Grajib in avanti nessun soggetto ha smesso di torturare e dove molteplici squadroni della morte (tra i quali spiccano quelli a stelle e strisce) agiscono indisturbati. Allo stesso modo non nomina Guantánamo né l’Afghanistan, né l’Egitto, né Gaza. Neanche sa Pannella dov’è la Colombia dei quattro milioni di profughi, né il Messico di Atenco, Juárez e Oaxaca, o i nostri CPT o il nostro canale di Sicilia, né null’altro che non risponda all’interesse di parte del partito radicale. Nomina perfino il Tibet e non la Cina (non sia mai che si parli di diritto del lavoro) a testimonianza della malafede nel difendere i diritti umani a comando, quando conviene e se conviene al PR.

2) Di diritti umani nel servizio pubblico si parla poco e male e si potrebbe fare molto meglio, ma se ne parla. Sarebbe lungo elencare le testate radiofoniche e televisive dedicate in tutto o in parte ai temi dei diritti umani e civili. Spesso il tema è trattato in maniera coraggiosa, spesso superando o tentando di superare limiti culturali, distanze e appartenenze.

3) Sarebbe perciò un errore mortale farne prerogativa di un programma ghetto (oltretutto appaltato ad un partito) che indurrebbe a pensare che i diritti umani siano un interesse di parte e non generale della collettività tutta. Il che a ben guardare è proprio quello che vuole chi i diritti umani li viola. Jorge Rafael Videla, il dittatore argentino dei 30.000 desaparecidos, e che scherzando sinistramente diceva che il suo governo era “derecho y humano”, “dritto e umano”, lo ha sempre sostenuto: “i diritti umani sono un pretesto per attaccare la mia politica”. Chi non è radicale il programma non se lo guarda e pace.

4) Al contrario è bene (per chiunque non sia fuori di senno) che il tema sia oggetto diffuso di attenzione in molteplici testate e orari, ma soprattutto nelle testate giornalistiche, nei TG e nei GR. I diritti umani come tema hanno bisogno di più risorse, migliori collocazioni orarie (Silvestro Montanari, con il suo straordinario programma, andava in onda all’una di notte) ma soprattutto maggiori competenze diffuse.

5) Infatti non è tollerabile che l’occhio e l’orecchio attento capisca al volo se il redattore ha idea o meno di cosa sta parlando. Non è tollerabile che un giornalista professionista del servizio pubblico non abbia una cultura profonda dei temi dei quali parla e non abbia neanche voglia di farsela. Ad un ascoltatore attento di tutte le testate giornalistiche RAI è evidente che nel servizio pubblico spesso viga l’arte di arrangiarsi come se fosse una testata di provincia.

6) Ottimi professionisti, contrattisti alle prime armi, squali in quota partitica pronti a vendersi al miglior offerente, convivono in un contesto nel quale lo studio, la formazione permanente, non ha alcun ruolo. I redattori dei servizio pubblico hanno mai seguito un corso di Diritto internazionale che permetterebbe loro di sapere (per esempio) chi è belligerante e chi no, cosa è terrorismo e cosa non lo è, oltre le ideologie? Sanno qualcosa di Storia dei diritti umani? Non è questo, l’ignoranza e la superficialità dei giornalisti, il motivo per il quale i temi vengono seguiti per due-tre giorni al picco di una crisi e poi dimenticati? In che modo i caporedattori (quelli che decidono materialmente di cosa parlare nei TG e nei GR) sono sensibilizzati al tema? Cosa sanno? STUDIANO?

Sarebbe quello in formazione permanente l’investimento più importante. Ma è previsto?