L’autunno di re dollaro

di FEDERICO RAMPINI

“Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema”. La battuta fu pronunciata nel 1971 da John Connally, segretario al Tesoro Usa, quando l’Amministrazione Nixon decise di sganciare il dollaro dalla parità con l’oro, precipitando il mondo in un decennio di iperinflazione, tassi alle stelle e tempeste finanziarie. Quella cinica osservazione è valida anche oggi. Malgrado abbia perso negli ultimi sei anni oltre il 40% del suo valore rispetto all’euro, il dollaro resta il centro del “sistema solare” del commercio e della finanza globale. Questa sfasatura tra il crollo del suo valore e la persistenza del suo ruolo egemonico, è alla radice di molti mali della nostra economia. E’ una contraddizione che paghiamo in tanti modi: il petrolio oltre i 100 dollari, l’inflazione dei generi alimentari, l’impasse della Bce che non riesce a tagliare il costo del denaro per colpa di un carovita importato; tutto ciò si può ricondurre agli squilibri propagati da “sua maestà decaduta” il biglietto verde. Perfino la Cina e i paesi dell’Opec subiscono pesanti ripercussioni interne per la débacle del dollaro, nessuno riesce a difendersi. Siamo tutti in attesa di una rivoluzione copernicana nelle regole monetarie. Se non arriva, è anche colpa nostra.


Eppure il declino americano è evidente. L’Unione europea ha ormai un Pil superiore a quello degli Stati Uniti. La Cina ha sostituito l’America nel ruolo di principale partner commerciale di quasi tutte le aree del mondo, dall’Europa al Giappone. Nella classifica Forbes dei miliardari ai primi 20 posti quest’anno ci sono più indiani che americani. La centralità del dollaro fu istituzionalizzata nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods, quando l’economia americana era un gigante solitario in mezzo alle macerie della seconda guerra mondiale.

Il mondo di oggi è irriconoscibile, i rapporti di forza sono stravolti, non solo perché l’America è in recessione e stremata dalla crisi dei mutui, ma anche perché il suo ridimensionamento è una tendenza di lungo periodo. Il superamento del “sistema solare” con il dollaro al centro è stato profetizzato più volte.
Ancora un mese fa George Soros dichiarava a Davos che “è finita un’èra di 60 anni di espansione della finanza mondiale basata sul dollaro come moneta di riserva”. Ma il dollaro è ancora lì, malconcio e insostituibile. Warren Buffett, il più ascoltato investitore degli Stati Uniti, due giorni fa ha sentenziato che il dollaro non potrà che valere sempre meno. Di questo passo sarà carta straccia; ma l’unica carta universale. L’86% delle transazioni quotidiane sui mercati dei cambi sono in dollari. I due terzi delle riserve delle banche centrali (comprese le due più ricche del mondo, la cinese e la giapponese) sono in dollari.
Si parla da anni di una diversificazione di queste riserve in favore dell’euro, ma procede a una lentezza esasperante: per ora le banche centrali mondiali detengono solo un quarto delle loro riserve in euro, cioè addirittura meno di quanto avevano in marchi, franchi, lire, fiorini, pesete e tutte le altre ex-monete dell’eurozona ante-1999.
Ancora più impressionante è l’egemonia del dollaro nel commercio internazionale, a cominciare dai mercati delle materie prime. Più volte dei leader antiamericani hanno cercato di sottrarre il petrolio al signoraggio del dollaro. Da Gheddafi agli iraniani, da Saddam Hussein a Hugo Chavez, chi non ricorda le loro proposte di convertire in euro le quotazioni del greggio? Tutte chiacchiere. “Perfino un paese come l’Algeria – ha rilevato il Wall Street Journal – che vende agli Stati Uniti appena il 27% delle sue risorse energetiche, gestisce il 100% del suo commercio estero in dollari”. La Malesia e l’Indonesia forniscono la maggioranza delle loro risorse naturali alla Cina: si fanno pagare in dollari. Il Brasile vende zucchero a tutta l’Asia: in dollari. Iran, India, Pakistan e Bangladesh hanno creato una sorta di mercato comune ma regolano le loro transazioni in dollari. Idem nel commercio tra Cina e Giappone, tra Cina e Corea del Sud. Un fenomeno simile accadde nel secolo scorso. Molto tempo dopo che la Gran Bretagna aveva cessato di essere l’economia più ricca, la sterlina rimase la moneta degli scambi e della finanza internazionale: fino alla seconda guerra mondiale. Il parallelo non è rassicurante, visti i disastri finanziari avvenuti negli anni Trenta.
Le conseguenze nefaste che ha su di noi il tracollo del dollaro sono ben più ampie di quanto si crede. E’ noto che siamo penalizzati perché le nostre esportazioni costano sempre più care, non solo sul mercato Usa ma in tutti quei paesi le cui monete sono agganciate o influenzate dal dollaro, inclusa la Cina. E’ meno noto il modo in cui il dollaro debole diffonde i virus dell’inflazione mondiale. Le fiammate dei prezzi del petrolio e di tutte le materie prime – metalli, derrate agricole – sono causate “due volte” dal dollaro. Anzitutto i paesi esportatori di energia e risorse naturali devono compensare la caduta della moneta con cui vengono pagati. Ma vi si aggiunge il ruolo della speculazione: proprio perché l’America esporta debiti e inflazione, i capitali mondiali cercano rifugio in investimenti sicuri. Le materie prime sono diventate l’ultima spiaggia per ripararsi dalla crisi. Nel lungo termine, certo, petrolio grano e riso rincarano per il boom dei consumi di Cina e India. Nel breve termine vanno su perché gli hedge fund accaparrano i “futures” delle materie prime come protezione dal collasso del dollaro. Proprio come negli anni 70 di Nixon, l’America esporta la sua crisi in ogni angolo del mondo.
Perché non riusciamo a sganciarci dal ruolo ingombrante di una moneta allo sbando? L’euro continua a essere una promessa mancata, una moneta-leader solo allo stato potenziale. E’ sintomatico che le banche centrali di Pechino e di Tokyo possiedano ancora così pochi euro. Visto dall’Asia – l’area che sta diventando il nuovo baricentro e la massa critica dell’economia globale – l’Unione europea è un’entità politicamente inafferrabile. Pesa anche il fatto che la più grossa piazza finanziaria d’Europa, il mercato più liquido ed efficiente è Londra, che sta fuori dall’euro. Infine quando i fondi sovrani della Cina, di Singapore e degli emirati arabi vogliono comprarsi le banche americane vengono accolti a braccia aperte. Nell’Unione europea perfino acquisizioni franco-italiane, o viceversa, sono ostacolate. La centralità del dollaro avrà vita lunga finché non si fa avanti un sostituto credibile.
(7 marzo 2008)