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Totò, Fabrizi, l’università, le lauree e i giovani d’oggi

totofabrizi [1] La Repubblica tira fuori l’ennesimo articolo [2] sulla proliferazione di corsi universitari in qualsiasi cosa.

Strappa un sorriso un po’ scandalizzato leggere di lauree in “scienze del benessere del felino” o titoli universitari da “annunciatori e presentatori” o la proliferazione senza freni di sedi sul territorio. Il cuore del problema però è che se la Costituzione garantisce il “diritto allo studio”, questo è stato svilito dalla prassi in un “diritto al titolo“, sempre più depauperato e sempre meno spendibile.

E se fai notare che l’università massificata dell’autonomia liberista non è in grado di governare il cambiamento e andrebbe rifondata, otterrai solo veti, da destra e da manca.

Ottenere la sede di un singolo corso (magari in un appartamento del Comune) che possa fregiare una valle alpina dell’essere sede universitaria, fa più gola della secchia rapita e crea consenso e clientele. E fa vincere le elezioni.

Ovviamente si tratta di corsi di laurea “nuovi” da creare su due piedi, non corsi tradizionali che richiedono decenni per radicarsi.

E’ uno dei frutti malati dell’autonomia, che stabilisce sì un rapporto con il territorio, ma in maniera perversa. L’università in ogni paese dell’Italia delle cento e dispari province e degli oltre ottomila comuni finisce per chiamare “università” quella che appena vent’anni fa si chiamava “scuola secondaria”. Ma se un’associazione industriale di un distretto qualsiasi è disposta a metter mano al portafogli per spostare l’università a Caianello (lo dico pensando a “Totò a Colori”) non c’è argine che tenga. A patto di non sorprendersi che posto per la ricerca in una università così non ve ne sia.

L’università di oggi fotografa la nostra società. La meritoria università di massa (che democratizzò l’accesso ai saperi) liberandolo dal tanfo classista gentiliano, si è ritorta contro se stessa e non ha saputo evitare la banalizzazione e la massificazione degli studi. Perché non è lo stesso una “Università di massa” che una “Università massificata”, al ribasso, che rilascia titoli ogni giorno più svalutati da spendere in un mercato precario del lavoro. Non è lo stesso laureare tutti (ovunque e in qualunque cosa), che dire, come recita l’Art. 34 della nostra Costituzione che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” e che “la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Ciò tanto più in una società come la nostra, dei consumi e del Grande Fratello. La pauperizzazione di tutti i gradi d’istruzione vanifica il dettato costituzionale. Se le mura dell’istituzione, scuola o università che sia, divengono fragili, tornano a dominare quelli di sempre. La democrazia stessa è a rischio se tornano a capire il mondo solo quelli che a casa hanno i libri, quelli che se la scuola non orienta più verranno orientati dall’intorno familiare e che hanno i mezzi, culturali e/o economici. E gli altri? Gli altri li chiameremo dottori… e la facciata della democratizzazione del sapere sarà salva.

Piuttosto che prevenire i fenomeni sociali (nonostante le migliaia di bravi sociologi strutturati) corriamo sempre loro dietro. La scuola superiore si svuota ed ecco inventare il tre+due (i due gradi delle lauree voluti da Berlinguer) nel quale la prima laurea colma le lacune delle superiori (invece di raddrizzare le gambe alla secondaria si sposta il problema di tre anni in là) e la specialistica si incarica di nuovo di selezionare solo i migliori (spesso di nuovo per censo) e dar loro una preparazione e un titolo appena meglio spendibile. Se l’Università deve sfornare solo tecnici (il tre) allora valeva la pena fare argine nella secondaria mantenendone le buone e spesso luminose tradizioni che erano già del Regno d’Italia. Non è stato così ed è evidente che per chi arriva all’Università senza spalle solide non è il titolo di “veterinario” quello al quale può aspirare. Ed ecco che deve rimediare su quello di “dottore in benessere del felino”. Del resto, ci dicono… se c’è mercato…

C’è mercato, infatti, per queste lauree. Non sempre ma spesso. Ma nel mercato, nel libero mercato, quello che sparisce è il progetto, un progetto di vita, un progetto di educazione, un progetto di paese. Un umanista intellettualmente onesto sarebbe contento che il sistema privilegiasse la formazione di ingegneri perché “è bene per il paese”. Ma nell’affermare quello che ritiene essere il bene del paese e nel chiedere uno spostamento di risorse, andrebbe oggettivamente contro le sue (presunte) aspettative di carriera. Meglio quindi lasciare governare il sistema dal libero mercato (cioè non governare) come valore supremo e “unico bene per il paese”. E così nessuno (apparentemente) orienterà i ragazzi.

Così il figlio del proletario oggi diventa agilmente dottore (dottore in “annunciatore e presentatore” magari) per scoprire che quel titolo non solo non gli assicura il coronamento dei suoi sogni, ma neanche -sembra stantio ribadirlo- un minimo di benessere e sicurezza. Quel benessere e sicurezza con il quale il semplice stipendio di operaio o di piccolo impiegato del padre o del nonno ha permesso a lui di diventare dottore.

Nonostante sia colpa sua solo in parte, si ritrova spesso dottore con poche qualità e troppe aspirazioni. Del resto, se fin lì è arrivato con poche difficoltà e nessuna selezione, e senza sapere che nel vero imbuto sta appena entrando, cosa dovrebbe fargli pensare di non potere aspirare, con una cultura malferma e una preparazione troppo settoriale, a realizzare i suoi sogni? Chi gli ha spiegato che per realizzarsi bisogna sforzarsi sistematicamente per anni? E non realizzando né sogni né bisogni o entrerà nel mercato del lavoro da comprimario, o resterà intrappolato nel sistema educativo.

Negli ultimi anni neanche la laurea specialistica (spesso anch’essa parcellizzata) basta più. Ed ecco che i migliori giovani, un po’ per utilità ma di più per paura di navigare nel procelloso mare del mercato del lavoro, si scrivono a master, alte scuole, specializzazioni, post-qualcosa, dottorati. Sono tutte istituzioni utilissime, a patto che siano occasione per costruire qualcosa a partire dai valori stessi dei partecipanti. Invece vengono vendute come professionalizzanti, come se il terzo o quarto livello di studi universitari (il terzo o quarto pezzo di carta) fosse risolutivo. Così non è se non partendo da valori e meriti indipendenti, lo studio, la cultura e purtroppo (di nuovo) il ceto di provenienza. Basta dire che per ogni dieci giovani che accedono (quasi trentenni) ad un dottorato, appena uno o poco più entrerà nei ruoli universitari (quasi quarantenne).

Del resto fu Letizia Moratti che volle “laureare l’esperienza”…