Gianni Minà – Cuba: il candore dei cronisti italici

Il Manifesto del 24/05/2005


Uno spirito caustico come Daniel Chavarría, scrittore e rivoluzionario uruguayano, ha liquidato l’episodio dell’espulsione da Cuba di Francesco Battistini del Corriere della Sera e di Francesca Caferri de la Repubblica, insieme a due o tre politici polacchi, con una battuta crudele “Meno male! A Cuba i giornalisti li espellono, in Iraq invece la truppa d’occupazione nordamericana spara loro addosso”. La battuta feroce si basa su una constatazione incontrovertibile e scabrosa: anche Cuba vive da tempo una guerra, quella che gli Stati uniti le hanno dichiarato 45 anni fa con l’embargo economico e mediatico (recentemente inasprito) e che ora, nell’epoca di Bush jr., ha ripreso vigore, come confermano le 450 inquietanti pagine del progetto “Cuba libre”, disponibili da maggio 2004 sul sito del dipartimento di stato Usa. E’ un progetto politico ben preciso che, con tanti saluti al diritto di autodeterminazione dei popoli, punta ad un cambio “rapido e drastico” nell’isola. Così, senza voler giustificare le inutili espulsioni dei giornalisti, si intende come Cuba possa vivere in una sindrome di “castello assediato” che le fa commettere errori. Una condizione in cui la nazione più poderosa del mondo stanzia pubblicamente 53 milioni di dollari l’anno (più 5 per le campagne di propaganda) per costruire una opposizione alla revolución e cambiarne il destino (per ora meno drammatico del resto dell’America latina).


Perché nel documento della “Commissione per sostenere una Cuba libera” si dichiara senza mezzi termini l’intenzione del governo di Washington di designare fin da ora, per l’isola che si presume sarà liberata, un coordinatore del dipartimento di stato, che si occuperebbe della transizione. Insomma un Paul Bremer che successivamente dovrebbe passare il potere ad un altro Allawi, anche lui, verosimilmente, proveniente dalla Cia. E questo, è ovvio, per ristabilire la democrazia.
“L’assemblea per la promozione della società civile a Cuba”, organizzata da Marta Beatriz Roque venerdì 20 e sabato 21 maggio, con un budget di 130 mila dollari, forniti da James Cason, esperto di “guerre sporche” e responsabile dell’ufficio di interessi degli Stati uniti all’Avana, è una delle tappe di questa strategia della tensione. Una politica tesa alla destabilizzazione interna e inaugurata, due anni fa, con i dirottamenti di tre aerei passeggeri e il sequestro fallito del ferry boat di Regla.
La strategia è proseguita quest’anno in occasione della 61° sessione della Commissione diritti umani dell’Onu, nella quale il governo di Washington è riuscito a bloccare la presentazione di una denuncia sulle violenze, gli abusi e le torture compiute dai suoi funzionari, ufficiali e soldati in Afghanistan, nelle carceri irachene e a Guantanamo, ma ha ottenuto di imporre di stretta misura, col voto determinante di alcune nazioni europee come l’Italia, una censura a Cuba, dove non ci sono mai stati desaparecidos, torture ed esecuzioni extra giudiziarie.
L’iniziativa di Beatriz Roque e di René de Jesus Gomez e Felix Antonio Bonne, che, bisogna ricordare, si è svolta regolarmente, con il disappunto di tutti quei politici mestatori e giornalisti che si aspettavano una repressione, è stata però un’iniziativa alla fine autolesionistica.
Perché non solo ha costretto alcuni dissidenti storici come Osvaldo Payá, Cuesta Morua ed Elizardo Sanchez a dissociarsi da una manifestazione organizzata da chi “incontestabilmente prende ordini e soldi dal governo degli Stati uniti”, ma perché ha ribadito le divisioni e la possibilità di manipolare l’opposizione alla revolución.
Chi potrebbe fidarsi, infatti, di un progetto di cambio politico che afferma: “Bisognerà processare i funzionari e i membri del governo, del partito, delle forze di sicurezza, delle organizzazioni di massa e anche quelle di cittadini favorevoli al governo rivoluzionario (e quindi ufficialmente tutti) e forse pure di molti membri dei Comitati di difesa della rivoluzione”? Perché, sia chiaro “la lista potrebbe essere molto ampia”. Questa sarebbe la strategia per restituire Cuba alla libertà e alla democrazia? E i cronisti dei nostri più prestigiosi giornali invece di informarsi e di allarmarsi per questa guerra sotterranea in corso, vanno, in zona di operazione, con visti da turisti. Lo farebbero in Iraq o anche solo in Palestina? E perché insieme ai candidi partiti “democratici” italiani dimenticano per esempio che, proprio in questi giorni, George W. Bush ha, come ospite a Miami, il famigerato terrorista Luis Posada Carriles, al quale potrebbe concedere “asilo politico”?
Ma in Italia queste inquietanti realtà, che spiegano la “sindrome da assedio” in cui talvolta cade Cuba, non interessano a molti esponenti di partiti che si dichiarano ancora di sinistra. Figuriamoci ai giornalisti, che certamente non hanno pensato di andare in Florida (consiglierei con un visto giornalistico ufficiale) per fare un reportage negli ambienti da cui parte il terrorismo verso Cuba.
Ma l’informazione embedded che trionfa attualmente ignora queste quisquilie. La guerra mediatica cara al dipartimento di stato si fa con le provocazioni, magari come quelle familiari ai Reporter sans frontières, il cui fondatore, Robert Menard, recentemente ha dovuto ammettere di essere stato sovvenzionato dal National Endovement for Democracy, l’agenzia della Cia che sovrintende a queste operazioni di discredito delle nazioni non allineate agli interessi del governo degli Stati uniti.