E le famiglie si impoveriscono

Alfredo Recanatesi, l’Unità

Ancora un picco di inflazione: quasi il 3% in un anno e lo 0,4% nel solo gennaio. Nel resto d’Europa le cose vanno peggio con una inflazione superiore al 3%. Un tempo un’inflazione più bassa di quella che si registra nei Paesi con i quali ha più senso confrontarci era segno di stabilità o, addirittura, di maggiore virtù.
Oggi non è più così. Siccome le determinanti dei prezzi sono ovunque assai simili, una inflazione più contenuta è dovuta, come direbbero gli economisti, ad una maggiore elasticità della domanda.

Tradotto, significa che i rincari trovano una maggiore resistenza in una domanda che reagisce riducendosi. In parole ancora più esplicite, il potere d’acquisto di gran parte della popolazione è già al limite, non ha margini per sostenere ulteriori rincari, per cui se i prezzi aumentano non rimane che ridurre le quantità acquistate. Almeno per molti generi, quindi, risulta più difficile trasferire sui prezzi finali l’aumento dei costi, come quelli dell’energia o di alcune derrate alimentari, e questo spiega come, pur vivendo tutti nello stesso mondo, da noi i prezzi al consumo stiano aumentando meno che nel resto d’Europa.
Del resto, i dati dell’Istat dicono che i maggiori rincari, con il quattro e più per cento di aumento annuo, sono stati registrati dai trasporti (benzina e gasolio), alimentari e abitazione (casa, elettricità, acqua, combustibili), insomma i consumi più popolari, quelli più vitali, quelli che tanto più pesano quanto più è modesto il reddito del quale si dispone. Se poi si mette nel conto che una inflazione europea superiore al 3% allontana la prospettiva di una riduzione significativa dei tassi di interesse, e dunque del costo dei prestiti e dei mutui, il quadro della condizione nella quale versano le fasce di reddito più basse si completa.
Due sono le indicazioni che si ricavano da questi dati. La prima, la più generale, è l’impoverimento che il Paese nel suo complesso sta subendo. L’inflazione con la quale abbiamo a che fare è prevalentemente importata. Essa è originata in primo luogo dai prezzi internazionali dell’energia e da tutti quelli per i quali l’energia ed il petrolio costituiscono componenti rilevanti di costo, nonché da alcune derrate, come il grano, per le quali l’uso alimentare è conteso in misura crescente da quello per la trasformazione in biocarburanti. Il sistema produttivo nazionale non ha produzioni che, per esclusività o innovazione, consentano di "rifarsi" e compensare i rincari che è giocoforza subire. La conseguenza è un trasferimento netto di ricchezza fuori d’Italia e, in definitiva, un impoverimento del Paese nel suo complesso.
Ma questo impoverimento – ed è la seconda indicazione che viene dai dati sui prezzi – è tutt’altro che omogeneo. Come è evidente dalle categorie merceologiche che hanno presentato i maggiori rincari, si concentra sulle fasce di reddito più basse; in altre parole accentua la sperequazione distributiva nella quale l’Italia ha già un ben poco invidiabile primato europeo.
Questi dati sono usciti nel giorno nel quale il Presidente della Repubblica si è trovato costretto a decretare la fine prematura della legislatura. Bene che va, un governo nel pieno delle funzioni per poter affrontare il problema dell’impoverimento e, contestualmente, quello della equità distributiva non lo vedremo che tra tre o quattro mesi: non è poco in considerazione dei venti di crisi economica che vanno rinforzando nel mondo e della urgenza che reclama la crescente ampiezza dell’area del disagio sociale e della vera e propria povertà.
Piangere sul latte versato è cosa notoriamente inutile; speriamo che non sia altrettanto inutile sollecitare le forze politiche a confrontarsi costruttivamente su questi temi attorno ai quali ruota l’innegabile declino economico e sociale del nostro Paese.