A dieci anni dal golpe dell’11 aprile 2002 contro il governo di Hugo Chávez a Caracas (nella foto il 13 aprile, quando il popolo lo liberò), ripubblico con piacere un mio saggio uscito nel 2004 su “Storia e problemi contemporanei” (Risposte popolari al golpismo in America latina. Storia e problemi contemporanei, vol. 36; p. 173-180, ISSN: 1120-4206) dove comparo il fallito golpe contro Chávez a quelli contro Perón in Argentina nel 1955 e Allende in Cile nel 1973. Credo che la riflessione sia in larga parte tuttora attuale (gc).
L’11 gennaio 1999 Hugo Chávez s’insedia al palazzo di Miraflores di Caracas come presidente della nascente Repubblica Bolivariana del Venezuela, il quarto produttore mondiale di greggio. Il prezzo del barile di petrolio venezuelano è all’epoca di appena 8,43 dollari e l’OPEC è ormai una sonnacchiosa istituzione di stati bananieri che, pur producendo il liquido nero che muove il pianeta, hanno da tempo rinunciato ad influenzarne il prezzo. La stampa europea si interessa superficialmente al neopresidente venezuelano e lo fa in maniera più offensiva che critica. Soprattutto le sinistre, tanto radicali come moderate, ne parlano con sprezzo riducendolo alla categoria sempre comoda di “populista”, e ricordando il precedente del tentato colpo di stato del 1992.
Preferiscono sorvolare sul fatto che Hugo Chávez fosse stato tra gli ufficiali che nell’89 avevano rifiutato di sparare sulla folla. Allora la democrazia venezuelana aveva massacrato migliaia di cittadini inermi per reprimere l’insurrezione popolare contro il carovita passata alla storia come Caracazo. Una volta al governo, i pregiudizi non cadono, nonostante che a più riprese tanto il Centro Carter come l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), come lo stesso PNUD, sottoscrivano rapporti nei quali ne testimoniano la piena correttezza democratica. Nonostante un colpo di stato e una serrata golpista di due mesi, non esiste, secondo queste organizzazioni, un solo prigioniero politico in Venezuela né si attenta in alcun modo alla libertà di stampa.
Il sociologo Edgardo Lander[1], elenca i motivi del “profondo disgusto”, da parte del governo degli Stati Uniti verso lo stato che s’ispira fin dal nome al Libertador, Simón Bolívar. Al primo posto indica proprio il rafforzamento dell’OPEC e una politica estera rivolta al multipolarismo ed alle relazioni politiche ed economiche Sud-Sud. Soprattutto Hugo Chávez afferma -imperdonabilmente- come l’estrema disuguaglianza economica impedisca, di fatto, l’Accordo di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), fortemente voluto dagli Stati Uniti. Già dopo pochi mesi di governo, il nuovo Venezuela emerge come una svolta per l’OPEC tutta. Diretta dal bolivariano Alí Rodríguez, l’organizzazione dei paesi petroliferi riprende in mano il proprio destino: il prezzo del greggio torna ad essere un fattore di sviluppo per i paesi produttori[2]. Troppo perché dagli Stati Uniti non mettano subito il Venezuela nel sacco del “nuovo asse del male latinoamericano”, del quale scrive il “Washington Times[3]” ispirato da ambienti governativi. I nuovi nemici, Chávez, Luís Ignacio “Lula” da Silva e poi l’argentino Nestor Kirchner, sono accomunati all’eterno nemico cubano, Fidel Castro Rúiz.
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L’11 d’aprile del 2002, per la prima volta, un colpo di stato classico, contro un governo ascrivibile alla categoria dei "governi popolari", è sconfitto da un’enorme ed inattesa mobilitazione di massa. Sono passati quasi 29 anni da quando, l’11 settembre del 1973, un colpo di stato dalle caratteristiche del tutto simili, mette fine alla Rivoluzione con empanadas[4] e vino rosso di Salvador Allende in Cile. Non è solo uno slogan: riafferma la pacificità di una transizione al socialismo che si vuole tranquilla come una gita domenicale. È appena un passo in più rispetto alla Rivoluzione in libertà, figlia dell’Alleanza per il progresso kennediana, della presidenza del democristiano Eduardo Frei Montalva (1964-1970).
Nel mezzo vi sono trent’anni di neoliberismo che il ciclo di dittature degli anni ’70 ha imposto a tutto il continente. Sono tre decenni che hanno trasformato le classi popolari latinoamericane -sempre meno operaie, sempre più lumpen– la storia dei movimenti, l’immaginario, la coscienza e l’orgoglio di classe, le forme di lotta. In un continente dove l’agenda politica è dettata ed avvilita dal modello economico, il fattore principale è la radicale polarizzazione economica[5]. Quello del 2002 è un altro mondo rispetto a quando, negli anni ’70, un movimento operaio strutturato, lottava per una rivoluzione che appariva dietro l’angolo.
Eppure, trent’anni dopo quello cileno, in condizioni del tutto favorevoli, un colpo di stato da manuale fallisce a causa di un’inattesa sollevazione popolare. Proprio la novità della reazione popolare al colpo di stato dell’11 d’aprile 2002 in Venezuela, offre spunti di riflessione sull’evoluzione delle forme di militanza. Il golpe a Caracas ha tutto per riuscire: multinazionali petrolifere, governi di Stati Uniti e Spagna, gran capitale internazionale, oligarchie locali, gerarchie ecclesiastiche, buona parte dello stato maggiore delle forze armate. Mentre gli squadroni della morte entrano in azione, il Fondo Monetario Internazionale brucia tutti sul tempo nell’esprimere soddisfazione ed appoggio[6]. Soprattutto il golpe ha il pieno controllo di tv e giornali, potendo contare sul gruppo del magnate Gustavo Cisneros. Dal rame al petrolio, l’aggettivo “cileno” per il colpo di stato capeggiato dal capo della confindustria locale, Pedro Carmona, è usato a proposito[7] pur lasciando in ombra l’abilità di Chávez nel dividere le forze armate. È una differenza anche culturale. Quelle cilene, che si considerano al di sopra dello stato, sono tutrici dell’ordine per conto delle classi dominanti. In Venezuela, le più marcate differenze di classe all’interno delle Forze Armate propongono un quadro più simile al 18 luglio 1936 spagnolo. Allora la Marina rimase fedele alla II Repubblica, e contribuì allo stallo del colpo di stato di Francisco Franco, poi degenerato in una guerra civile decisa dall’intervento nazifascista.
I motivi del rovesciamento delle sorti golpiste in Venezuela vanno ricercati dunque non nelle carenze di questo, ma nell’inattesa forza del campo popolare, nell’evoluzione delle forme di militanza, nel modello di stato inclusivo alla base della Costituzione bolivariana, nei meccanismi partecipativi che innescano il senso di cittadinanza, nel diverso ruolo dei partiti. Afferma Marta Harnecker[8] che proprio il colpo di stato fornisce alle classi popolari uno strumento di comprensione della realtà che in poche ore rafforza in maniera decisiva la coscienza di classe. Con il golpe, la studiosa cilena scomoda Lenin, si rivela alla popolazione venezuelana il progetto fascista alimentato dalle televisioni e governato dall’ambasciatore statunitense Charles Shapiro e da Otto Reich[9].
In Europa si etichetta l’esperienza venezuelana come populista, trascurandone tanto la complessità ideologica come gli spiccati elementi di modernità. È perfino affascinante studiare come molti termini, propri delle categorie politologiche latinoamericane, siano traslati e volgarizzati in Europa. Sembra quasi che tanto a destra come a sinistra ci si rifiuti di comprenderli. Se il termine nazionalismo generato in Europa in un contesto distinto dalla traduzione progressista con la quale è letto in America, lo stesso ritorna in Europa senza riletture e perdendo di senso. Come se per spiegare l’ex presidente peruviano Juan Velasco Alvarado o il panamense Omar Torrijos, si dovesse forzosamente ricorrere a Clemenceau e davvero Perón fosse inquadrabile solo come ammiratore di Mussolini. Termini come populismo, giustizialismo e nazionalpopolare[10] restano vittime (sic) del riduzionismo interpretativo europeo. Quando non si rifiutano apertamente, come per peronismo, sono ridotti nell’esotismo e nel folklore. Nel caso del bolivarianismo, la cattiva disposizione alla comprensione è evidente. Il pensiero di Simón Bolívar come quello di pensatori decisivi come Simón Rodríguez o Ezequiél Zamora, che mettono da 200 anni al centro sovranità nazionale e lotta contro imperialismo ed oligarchie insieme al riscatto della multietnicità delle società latinoamericane appaiono, visti dall’Europa, inattuali. Intollerabile è l’“o inventamos o erramos” con il quale Rodríguez rifiutava innanzitutto l’importazione di soluzioni e primogeniture europee. Lo stesso concetto di “Patria Grande Latinoamericana” da questa parte dell’Oceano appare un noioso velleitarismo e il destino di sottomissione del continente è visto come immutabile.
Per comprendere le novità dell’esperienza bolivariana, è utile compararne il successo contro il proprio golpe con la caduta di due modelli tipici: quello peronista del 1955, che spinge Juan Domingo Perón ad abbandonare la Casa Rosada, e quello marxista del 1973, che induce Salvador Allende al suicidio nel Palazzo della Moneda.
Perón costruisce dall’alto –ma la costruisce- una coscienza di classe nazionalista, che vuole tenere lontana dalla sinistra marxista tradizionale. Tanto il Partito comunista come quello socialista non svolgono alcun ruolo. Rispetto al "populismo" chavista, vi è un abisso semplificativo. Perón, al contrario di Chávez, sa lui cosa è bene per i suoi descamisados e fa calare dall’alto il suo riformismo. In Venezuela, dove il movimento è una struttura capillare che organizza 1.300.000 militanti, la situazione è incomparabile ed il dibattito che porta alla scrittura dal basso della Costituzione è una palestra di partecipazione fondamentale[11]. Leggi come la Ley de pesca, sono figlie dell’apporto diretto dei pescatori artigiani, che sono disposti a difendere quella che considerano la loro legge. È solo un esempio di un processo nel quale il sentirsi rappresentati da un governo che chiama a una militanza che in Europa si definirebbe movimentista è per le enormi masse popolari venezuelane un vero battesimo della politica.
Il 16 giugno del 1955, a Buenos Aires, il bombardamento della Plaza de Mayo, da parte della Marina, causa 300 morti. Il 20 settembre Perón si rifugia nell’Ambasciata del Paraguay. I 18 anni della Resistenza peronista sono condotti da manipoli di rivoluzionari di professione[12]. È un modello marxista-leninista adottato nella prassi ma negato ideologicamente. Salvador Allende invece, al contrario di Perón, ha dalla sua una classe operaia marxista tradizionale. Viene da lontano, sente di andare lontano con una crescente e solida coscienza di sé. Conta inoltre su parti importanti delle classi medie e, al contrario di Perón, della parte di Chiesa cattolica che si riconosce nel processo che va dal Concilio Vaticano II a Medellin[13]. Quest’ultimo, con la Teologia della Liberazione, è per l’America Latina un passaggio decisivo.
Tanto per Salvador Allende come per Juan Domingo Perón l’uso della piazza è strategico. Le manifestazioni, i cortei, sono un’espressione chiara della forza delle classi popolari. Ma, in entrambi i casi, la piazza è convocata, non gioca la partita, fa il tifo, serve a contarsi. Il centralismo democratico, il giorno del colpo di stato, è tanto soffocante e rigido come era risultato il dirigismo peronista. Le masse non sono mai attrici della difesa.
Le masse venezuelane sono spontaneamente bolivariane, spesso di debole o recente politicizzazione generata a partire dalla repressione brutale del caracazo dell’89[14]. Vivono in un paese dove il lavoro fabbrile è divenuto marginale e domina l’economia informale. Non è un caso che i golpisti vantino tra le loro forze la CTV, un sindacato minoritario che rappresenta appena il 7% dei lavoratori del paese. È una situazione incomparabile con quella della classe operaia strutturata dell’Unidad Popular.
In Argentina la forza si mostra nella Plaza de Mayo. È proprio l’abbandono della piazza da parte della sinistra peronista – apostrofata dal Presidente come "stupidi imberbi" – che il primo maggio del 1974, segna il momento del riflusso oltre il quale si aprono le porte allo sterminio fisico. In realtà lo scontro decisivo, dove la destra peronista annichila la sinistra, si svolge all’aeroporto di Ezeiza in occasione del ritorno di Perón dopo 18 anni di esilio, il 20 giugno del 1973. Decine, forse centinaia di militanti della Gioventú Peronista che invocano la Patria socialista promessa dal vecchio generale, muoiono vittime di un’imboscata tesa loro dalla destra peronista alla luce del sole e davanti a due milioni di persone. Sono i prodromi del genocidio di una generazione.
In Cile la contesa è a distanza, lungo le Alamedas, la via che attraversa, perpendicolarmente alle Ande, tutta la capitale. Le forze dell’Unidad Popular risalgono dai quartieri popolari verso il centro storico. Le bande fasciste di Patria y Libertad e le classi medio-alte discendono da Las Condes e Vitacura, più vicine a dio ed alla cordigliera. Anche a Caracas sussiste una distanza fisica, rotta solo in poche zone contese, il Forte Tiuna, Miraflores ed è simbolico il fatto che i golpisti si mobilitino nel quartiere di Chuao, fisicamente sotto la sede della compagnia petrolifera PDVSA[15]. La distinta conformazione urbanistica, non evita la coincidenza tra le belle signore bianche che caceroleano, battendo ipocritamente coperchi di pentole mai state vuote. In trent’anni, solo il bianco e nero è diventato colore[16]. Tanto in Cile come in Venezuela e in Argentina, il cromatismo razziale distingue purtroppo i due schieramenti. Per gli oppositori di Perón, le classi popolari seguaci del generale sono cabecitas negras, testoline nere. Le classi dirigenti creole, nel ’55 come nel ’73 e nel 2002 non sono disposte a tollerare ipotesi redistributive, che nei tre casi, nonostante le differenze, non sono più che keynesiane. La differenza è che in Venezuela anche il presidente è una cabecita negra.
Allende ha già scelto da tempo come affrontare un 11 settembre che sa con certezza che verrà. Ed ha scelto di farsi simbolo di una legalità costituzionale che, in questo contesto, rappresenta anche martirio e profezia. Da laico crede in una visione escatologica del socialismo come destino ultimo dell’umanità. I suoi interventi a radio Magallanes ne sono uno straordinario testamento. Non è scontato che così dovesse andare ma è la scelta di Allende, probabilmente minoritaria anche all’interno del Partito Socialista. Trova più assonanza nel No alla guerra civile dove si arrocca un Partito Comunista che rinuncia a priori alla difesa della democrazia. La rivoluzione delle empanadas e del vino rosso si risolve in una tragica scampagnata dove pacifico è sinonimo di indifeso. È quella che Tomás Moulian definisce condotta autoidealizzante[17] della società cilena e che porta l’Unidad Popular ad illudersi fino all’ultimo della vocazione democratica dei militari cileni. In questo contesto si creano nodi, silenzi, responsabilità politiche da parte dei dirigenti del campo popolare che a 30 anni di distanza sono ancora difficili da sciogliere. La non difesa della democrazia è edulcorata idealizzando il martirio allendista. Le poche centinaia di militanti fatti addestrare dai partiti a Cuba, in Cecoslovacchia, in Unione Sovietica, non solo non sono utilizzati ma ne viene negata l’esistenza stessa. Ciò tanto all’interno di un piano insurrezionale, che non è mai esistito, come in un piano di difesa della democrazia, che doveva esistere. Jacques Chonchol, Ministro della Riforma Agraria di UP, nega di avere avuto una scorta armata addestrata in paesi socialisti[18]. I GAP[19], assassinati quasi tutti l’11, lottano per anni, malvisti, perché sia riconosciuto loro l’aver difeso in armi la democrazia e la vita del Presidente. L’antinomia violenza/non violenza è pervasiva. La rappresentazione di se stessi va scelta all’interno di due sole variabili: o agnelli sacrificali o stigmatizzati come terroristi. Si arriva a negare che lo stesso Allende abbia sparato dall’interno della Moneda. Qualunque difesa dal golpe non è solo condannata come militarmente velleitaria –probabilmente lo era- ma anche come politicamente indifendibile fino ad abbandonare ad un tragico destino quei giovani militanti che quegli stessi dirigenti avevano fatto addestrare. Un vero tradimento.
Lo schema venezuelano di milioni di lavoratori che scendendo in piazza sovvertono la situazione non è neanche pensato in Cile[20]. Non era parte della cultura politica cilena e tutto sarebbe dovuto passare attraverso anchilosati comitati centrali. La mattina dell’11, Allende invita il paese ad andare tranquillamente a lavoro[21]. Più tardi preannuncia loro il proprio martirio nella fede di un remoto futuro socialista. Allende non parla direttamente di tradimento dei partiti, forse non ha il tempo di sedimentarlo. Lo fanno, tra i molti militanti di base, i GAP superstiti, un pugno di uomini che tengono testa per ore ai terroristi. Le masse di UP appaiono immobili, marginalizzate in un 11 settembre dove non sono attrici ma già solo vittime. Gli operai sono asserragliati nel cordone industriale in sterili assemblee, nell’attesa di riunioni che si tengono altrove, di decisioni dei partiti che non verranno. Sono presto rastrellati impunemente per andare a migliaia incontro a tortura e morte.
Il Presidente Allende non sa e non teme che l’imposizione del neoliberismo sarà la ragion d’essere della dittatura militare, spazzando via la convivenza civile così come lui la concepisce. Ha fiducia nel tipico associazionismo di classe del XX secolo; nei sindacati, nei partiti figli della seconda internazionale e non sa neanche immaginare una società non mediata da quelle strutture.
Anche Chávez è inizialmente sconfitto. Casa Rosada e Moneda sono bombardate, il palazzo di Miraflores, sede del governo a Caracas, viene preso, iniziano i rastrellamenti e le violazioni di diritti umani. I morti sono decine in poche ore. Ma i militanti chavisti, oltre il golpe, vedono il vuoto assoluto. Vedono concretamente la chiusura immediata di scuole, mense popolari, ed ospedali pubblici che stanno rappresentando una speranza concreta per l’80% di popolazione esclusa dal modello. Chi scende dai ranchitos (le favelas di Caracas) sa che con il colpo di stato tutto è perduto. Nel ’55, il dittatore argentino Lonardi non chiude né scuole rurali né ospedali e Allende non pensa lo possa fare Pinochet. Non è così in Venezuela. Il ruolo dei partiti è marginale ma le organizzazioni sociali mostrano un’enorme versatilità. Si riprendono dallo sbandamento, si autoconvocano e sconfiggono il golpismo. La reazione delle masse smuove parte dell’esercito, gli ufficiali di grado medio, di estrazione prevalentemente popolare, che smentiscono lo Stato Maggiore e si schierano con la Costituzione. I trent’anni che separano dalla morte di Allende, hanno distrutto la fiducia nelle strutture di classe di derivazione europea, liquefatte dal neoliberismo.
Chávez è quindi figlio della ribellione e non uomo della provvidenza. Questa può offrire, alla prova del golpe, il meglio di sé sulla base di una partecipazione popolare che è altra rispetto al novecento dei partiti. Il governo e la stessa Costituzione fungono da strumenti delle organizzazioni sociali. La bassa società civile[22], senza la mediazione di quadri tanto indecisi come quelli allendisti, cambia la storia.
[1] E. Lander, El papel del gobierno de Ee.Uu. en el golpe de estado contra el Presidente Chávez, in “Osal”, junio 2002, pp. 5-11. Il saggio di Edgardo Lander è anche un eccellente repertorio di fonti sull’appoggio statunitense al golpe.
[2] La visione latinoamericanista della geopolitica del mondo attuale, che risulta sorprendente all’interpretazione dell’osservatore eurocentrico, è che sia il fallito golpe in Venezuela -del quale si parla in questa nota- a spingere definitivamente l’amministrazione di George W. Bush all’aggressione contro l’Iraq. Nella situazione di instabilità saudita e fallito il colpo di stato in Venezuela, gli Stati Uniti non potevano che acquisire il controllo delle risorse irachene. Cfr. G. Carotenuto, Por que el Venezuela es importante también en la crisis iraquí, “Brecha”, Montevideo, 14 aprile 2003.
[3] Per l’articolo del pensatore neoconservatore Constantine Menges, già membro del National Security Council, e vicinissimo a Donald Rumsfeld, ripreso in tutto il mondo cfr.: C. Menges, Blocking a new axis of evil, Washington Times, 7 agosto 2002. Tra le visioni critiche cfr. almeno M. Vicent, Un “eje del mal” hecho de libros, médicos y planes de alfabetización, “Página12”, Buenos Aires, 13 luglio 2003.
[4] Sorta di rustici di pasta sfoglia; in Cile ripieni di carne macinata e cipolla. Sulla storia politica cilena, in italiano, almeno, M. R. Stabili, Il Cile. Dalla repubblica liberale al dopo Pinochet (1861-1990), Giunti, Firenze 1991 e il classico, J. Garcés, Democrazia e controrivoluzione in Cile, Saggiatore, Milano 1977 (ed. or. Democracia y contra-revolución. El problema chileno, Buenos Aires, 1974).
[5] A. Borón (ed.), a cura di, Tiempos violentos. Neoliberalismo, globalización y desigualdad en América Latina, Clacso-Eudeba, Buenos Aires, 1999. A uso d’esempio: in Argentina, dal 1972 al 2003, si passa dal 2 al 40% di disoccupazione, dal 10 al 60% di povertà mentre quintuplica la concentrazione di ricchezza. Cfr: G. Carotenuto, Perché in Argentina si muore di fame, “Latinoamerica”, XXIII, n. 83, Roma, aprile-settembre 2003, pp. 78-83.
[6] Fondo Monetario ofrece respaldo a Carmona Estanga, “El Universal”, Caracas, 13 aprile 2002.
[7] Non è possibile, in questa sede, addentrarsi nelle questioni militari ma va ricordata almeno l’abilità di Chávez nel dividere rispetto all’incapacità di Allende di leggere e reagire al tradimento.Sulle Forze armate cilene cfr. P. Manns, Chile: una dictadura militar permanente. 1811-1999, Editorial Sudamericana, Santiago 1999).
[8] M. Harnecker, Venezuela: una revolución sui géneris, Testo di una conferenza tenuta a Porto Alegre il 24 gennaio 2003 in occasione del terzo Foro Sociale Mondiale.
[9] Alti funzionari dell’Ambasciata sono sicuramente all’interno del Forte Tiuna dove si riunisce la giunta golpista e presumibilmente partecipano o presiedono il Consiglio dei Ministri. Otto Reich, già responsabile della divisione latinoamericana del Dipartimento di Stato dell’amministrazione Bush, e quindi tra i più alti responsabili della politica estera degli Stati Uniti, fu già tra i massimi responsabili della guerra sporca contro il Nicaragua sandinista tra l’83 e l’86, per i quali il suo governo fu condannato per “terrorismo di stato” dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. Sul ruolo statunitense nel colpo di stato in Venezuela, cfr. almeno D. Campbell, American navy helped Venezuelan coup, “The Guardian”, London, 29 aprile 2002; J. Cason, D. Brooks, El departamento de Estado y la CIA habrían apoyado el golpe, “La Jornada”, Ciudad de Méjico, 16 aprile 2002; J. Cason, D. Brooks, Legisladores de Ee.Uu. exigen investigar el papel de la casa blanca en el golpe en Venezuela, “La Jornada”, Ciudad de Méjico, 7 maggio 2002.
[10] In Italia in particolare, proprio i termini giustizialismo e nazionalpopolare vengono completamente stravolti e travisati rispetto ai loro significati originali.
[11] M. López Maya, Entre protestas y contraprotestas el gobierno Chávez se endurece y debilita, OSAL, 2002, pp. 97-103.
[12] D. James, Resistencia e integración. El peronismo y la clase trabajadora argentina. 1946-1976. Sudamericana, Buenos Aires 1990 (ed. or. Resistance and integration, Cambridge 1988).
[13] Dal luogo della Conferenza episcopale latinoamericana del 1968, dove fu manifesto il ruolo della Teologia della Liberazione.
[14] La rivolta popolare repressa dall’esercito con un numero di morti compreso tra i mille e i tremila alla quale si fa risalire la rottura tra classi popolari e democrazia fondomonetarista che genererá il movimento bolivariano. M. López Maya, Protesta y cultura en Venezuela, Clacso, Buenos Aires-Caracas, 2002; M. López Maya, Venezuela después del caracazo. Formas de la protesta en un contexto desinstitucionalizado, Notre Dame University, luglio 2001.
[15] L. Lander, «Venezuela, golpe y petróleo», Revista venezolana de economía y ciencias sociales, Caracas 2003
[16] Per lo studio della piazza, sul Cile sono indispensabili i documentari: La última batalla de Salvador Allende di Patricio Henríquez, La Memoria Obstinada e La batalla de Chile, entrambi di Patricio Guzmán. Sul Venezuela, distribuito in Italia, Un altro mondo e’ possibile…in Venezuela, di Elisabetta Andreoli.
[17] T. Moulian, Chile actual. Anatomía de un mito, Lom, Santiago 1997. Squarciano il velo dell’idealizzazione cilena anche P. Manns, op.cit., e E. Lira, B. Loveman, Las suaves cenizas del olvido, Lom, Santiago 1999.
[18] Conversazione con l’autore dove l’ex Ministro palesemente mente essendo decine le testimonianze in tal senso.
[19] Grupo amigos del Presidente, la scorta di Allende.
[20] Chi scrive ne ha discusso con la maggior parte dei sopravvissuti della Moneda e con intellettuali come Mario Garcés o i già citati Moulian e Chonchol nell’ambito di uno studio sulla memoria della militanza politica in Argentina, Chile ed Uruguay.
[21] Tra le molte ricostruzioni, Ó. Soto, El último día de Salvador Allende, Aguilar, Santiago 1999.
[22] L’opposizione a Chávez si autodefinisce, senza un filo d’ironia, “alta società civile”. Nelle televisioni commerciali compromesse con il golpismo, i democratici sono sprezzantemente definiti lumpen o direttamente negros. L’elemento razzista creolo è parte integrante di un classismo arcaico che ritroviamo diffuso in tutto il continente come l’esempio citato nel testo delle cabecitas negras, testimonia.