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Così la Grecia si suicida; corrispondenze da Atene

20120215_103103 [1]ATENE – La mia giornata ateniese comincia affacciandomi sul Politecnico. Sono venuto fin qua a vedere se davvero la democrazia finisce lì dov’era cominciata ma il mio primo omaggio va ai giovani che nel 1973 fronteggiarono i carrarmati di Papadopoulos.

di Gennaro Carotenuto

Entrarono proprio sfondando questi cancelli per far finire l’occupazione di un forte movimento studentesco. I morti furono 24, ma dalla resistenza, da quella battaglia, dal clamore in Grecia e nel mondo, cominciò la fine del regime dei colonnelli. Non ci sono grandi segni nel Politecnico, sembra una normale giornata di lezioni. Vedo soprattutto bandiere palestinesi e un banchetto dei comunisti iraniani che protesta contro Ahmedinejad. Per il resto facce da studenti Erasmus, scritte sui muri, un bel Corto Maltese, ma nessun segno di particolare effervescenza politica.

Faccio pochi passi, meno di cento metri, e tutti guardano in su. Da un palazzone di corso 28 ottobre, un tipo in maniche corte, sulla sessantina, si protende nel vuoto da un quarto piano. Non è agitato, solo fa ampi gesti (foto) per allontanare i tre vicini che hanno scavalcato perplessi le ringhiere e cercano di convincerlo a rientrare. Lui parla ad alta voce, appare depresso, sconfortato più che alterato. Minaccia di buttarsi nel vuoto, ma si aggrappa forte alla grondaia. Di sotto la polizia ha messo i soliti nastri di plastica per circondare la zona. I curiosi sono decine ma tutti sembrano tranquilli. Un paio di telecamere riprendono la scena dal basso. Del resto il tutto è da film americano. Rimango qualche minuto col naso all’insù, poi decido di allontanarmi. Piove ma non fa freddo.

Mano mano che mi avvicino a Piazza Syntagma, il cuore della moderna democrazia ateniese e sede del parlamento, noto i segni della cupa battaglia di domenica. Edifici bruciati. Mi colpisce che siano quelli meno appariscenti, forse i meno presidiati, forse chissà. Non c’è uno striscione, una tenda, un segno tangibile di continuità della protesta. Non c’è neanche polizia. C’è il traffico di un giorno feriale e, sotto la pioggia, la gente si accalca sotto le pensiline degli autobus. Grigio il centro, nero fumo gli edifici bruciati, grigi perfino i negozi eleganti. In una galleria piena di belle profumerie, orologiai, negozi di accessori in pelle, ogni singola vetrina è stata metodicamente sfondata e adesso è rappezzata con dei fogli di adesivo trasparente. Il numero dei negozi che comprano oro è impressionante, segno dei tempi.

Ripasso a vedere il suicida. Due ore dopo si è seduto, sembra tanto stanco ma non vuole scendere. È solo a capo chino. Anche i vicini si sono ritirati. La polizia ha predisposto un enorme materasso, i curiosi sono sempre lì, magari si alternano, le TV sono andate via. Probabilmente finirà bene. Mi affaccio al museo archeologico, che ricordo splendido in una visita anteriore, e chissà che non trovi il tempo di rinfrescarne la memoria. L’orario impiegatizio (8.30-15) di uno dei musei più importanti del mondo mi ricorda di non sottovalutare le cause endogene della crisi. Per il tassista di stanotte invece i colpevoli sono da cercare altrove: i tedeschi che guadagnano con l’Euro e gli immigrati che levano lavoro ai greci. È con questi discorsi che la destra populista conta di vincere le elezioni ad aprile. Mi avvio al primo appuntamento di una lunga giornata ateniese. Ne racconterò.

Aggiornamento sul tentativo di suicidio qui [2].