Il Messico batte un colpo: “basta sangue”!

Per Matteo.

Mentre scrivo arriva la notizia della tua morte assurda.
Il tuo sguardo partecipe, critico, sincero su questo paese che entrambi amiamo
è sempre stato per me esempio e guida.
Mi mancherai.

Si è conclusa a El Paso negli Stati Uniti la marcia della “Carovana per la pace con giustizia e dignità”. Nei più di 3000 km percorsi lungo la “ferita del paese” la Carovana ha toccato le principali città del centro e del nord del Messico insanguinate dalla guerra contra il narcotraffico dichiarata da Felipe Calderón all’inizio del suo mandato nel 2006, che ha già fatto 40.000 vittime e 10.000 desaparecidos, per culminare a Ciudad Juárez, l’“epicentro del dolore”, come l’ha definita il poeta Javier Sicilia, figura catalizzatrice di un movimento ancora in costruzione.

Il 28 marzo scorso i cadaveri di Juan Francisco Sicilia, figlio ventiquattrenne del poeta, e altri 6 giovani sono stati ritrovati in una macchina abbandonata su una strada di provincia vicino alla città di Cuernavaca, nello stato di Morelos, a poche decine di kilometri da Città del Messico. Nei giorni successivi al ritrovamento le autorità giudiziarie hanno diffuso la notizia del possibile coinvolgimento di ex militari e soldati legati a gruppi criminali attivi nella regione, arrestato due possibili implicati (cosa molto poco comune, soprattutto per i mille figli di nessuno, principali vittime di questa guerra) e provato ad archiviare il tutto come l’ennesimo atto criminale di delinquenti senza scrupoli. Ma la società civile, prostrata da anni di violenza e di mancanza di giustizia, è scesa nelle piazze e ha alzato la voce.

Javier Sicilia, intellettuale cattolico formatosi con i testi della teologia della liberazione, collaboratore de La Jornada, e un gruppo di difensori di diritti umani a lui vicino (come Pietro Ameglio, di origine italiana, autore di scritti sulla non violenza e il pensiero gandhiano e membro di Serpaj, un’istituzione cattolica per i diritti umani attiva in tutta l’America Latina, o Emilio Álvarez Icaza, ex presidente della Commissione per i Diritti Umani di Città del Messico) provenienti da una élite cattolica progressista radicata nella città di Cuernavaca (piccola isola di verde e tranquillità a pochi passi da Città del Messico raggiunta dal 2009 dall’eco delle violenze), hanno chiamato la cittadinanza a manifestare il proprio dolore e la propria rabbia. Il grido di un “ora basta” collettivo è stato lanciato contro il crimine organizzato, ma anche e soprattutto contro quelle istituzioni che dovrebbero garantire la sicurezza e la giustizia e che invece stanno provocando solo terrore e impunità: 40.000 vittime e 10.000 desaparecidos dal 2006 ad oggi, 98% delle indagini non portate a termine, abusi e violazioni dell’esercito e della polizia federale che dal 2007 sono stati inviati nei punti caldi del paese (in particolare lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti ma anche in stati come il Michoacán o Sinaloa, centri importanti di produzione e transito di droga e luogo di origine, il secondo in particolare, dei più importanti capi delle organizzazioni criminali) nell’ambito della strategia di “guerra al narcotraffico”, responsabilità delle autorità a tutti i livelli di governo, che in questo paese sono al massimo di un discredito di lungo corso e spesso se non quasi sempre conniventi col crimine organizzato (come rivela una dettagliatissima inchiesta di una giornalista messicana, Anabel Hernández).

La reazione della società civile mobilizzatasi sull’onda della commozione per l’omicidio di Juan Francisco Sicilia è stata imponente: 200 mila persone l’8 maggio scorso a Città del Messico, e neanche un mese dopo, una ventina di autobus e decine di macchine che hanno raggiunto Ciudad Juárez, per firmare in questa città simbolo del fallimento della guerra contro il narcotraffico e della modernità neoliberale un documento in cui si esigono “la fine immediata della strategia di guerra, la smilitarizzazione della polizia e il ritorno dell’esercito nelle caserme”. Le ambizioni del documento, elaborato in una sua prima versione dal gruppo vicino a Sicilia e poi discusso e completato nella giornata di venerdì a seguito di nove tavoli di lavoro, vanno però ben al di là della fine della “falsa guerra contro il narco” e riflettono le anime diverse e a tratti conflittuali che hanno composto la carovana. Da un lato la voce delle vittime che chiedono “verità e giustizia” per i propri cari assassinati, desaparecidos o arrestati ingiustamente e vedono nelle istituzioni, per quanto queste si siano rivelate negligenti e spesso colpevoli, un interlocutore indispensabile, per lo meno nell’immediato. Dall’altro, le rivendicazioni politiche di quei soggetti sociali – attivisti, giovani dei collettivi, organizzazioni sindacali indipendenti, ragazzi delle radio comunitarie e media alternativi – impegnati da anni nella denuncia delle violenze e delle ingiustizie e che vedono in questa guerra la manifestazione più atroce e palese di un sistema economico e politico che sta portando un grande e ricco paese come il Messico al limite del collasso.

Il punto di tensione maggiore è legato ai modi e ai tempi della richiesta di smilitarizzazione e alle possibilità di negoziazione con le autorità. Se i primi, e lo stesso Javier Sicilia, considerano dirimente la questione della giustizia e della risoluzione dei casi e per questo reputano necessario un momento di confronto con le autorità a partire dal quale eventualmente avviare azioni di resistenza civile, i secondi, rivendicano l’esigenza della smilitarizzazione del paese e della società come conditio sine qua non per qualsiasi possibile dialogo con le istituzioni

I primi, etichettati nei giornali forse in modo troppo semplificativo come vittime, sono in gran maggioranza donne e uomini umili, che non si erano mai trovati su un palco e con un microfono in mano e che hanno trovato nella Carovana la possibilità di raccontare la propria storia di fronte alle telecamere, nelle strade di città lontane, di fronte a cittadini venuti da ogni angolo del Messico. Padri, madri, sorelle, mogli che hanno raccontato la storia dei propri cari ammazzati, desaparecidos o incarcerati ingiustamente e hanno ascoltato le storie degli altri e condiviso la rabbia, il dolore, la disperazione di trovarsi di fronte ad autorità incapaci e spesse volte colpevoli. Uomini e donne che si sono commossi al grido di “no estás sólo” “non sei solo”, con cui i manifestanti riempivano il silenzio carico di emozione di chi non riusciva a trovare le parole. “I morti non sono 40.000 morti. E’ mio figlio Joaquín che è morto, è Juan Francisco, è Gabo. Sono Luís e Ximena e la quantità di morti che non conosciamo. Nessuno conosce i loro nomi, solo le famiglie li piangono. Ma i morti sono i morti di tutti”. Le parole di Teresa Carmona, madre di uno studente di architettura dell’UNAM (la più grande università del paese e, per numero di studenti, del mondo) ucciso 10 mesi fa, partecipante della carovana, riassumono un sentire comune. I numeri della guerra si sono fatti storie, nomi, volti, come dimostrano le decine di cartelloni più o meno improvvisati che hanno riempito la piazza del monumento a Benito Juárez nel centro di Ciudad Juárez nella serata di venerdì. Questo lungo viaggio attraverso un paese in lutto è diventato così una “Carovana del conforto” come l’ha definita Javier Sicilia con una delle sue espressioni cariche di spiritualità ed escatologia (è continuo nei suoi messaggi il riferimento alla passione ma anche alla risurrezione del paese): “il dolore non ha ideologie, né agende politiche, il dolore cerca solo una cosa, il conforto e la giustizia”.

I secondi, le cui posizioni sono riconducibili ad un gruppo di organizzazioni di Ciudad Juárez riunite nel Frente Plural Ciudadano, alla Coordinadora metropolitana contra la militarización y la violencia, rete di associazioni di Città del Messico impegnate nella difesa dei diritti umani da sinistra, ma anche alle tante voci dei media indipendenti che hanno partecipato alla manifestazione, pur riconoscendo il diritto dei familiari delle vittime di esigere giustizia alle autorità e accedere a possibili indennizzi, considerano dirimente la smilitarizzazione del paese e il giudizio ad una classe politica corrotta e connivente. “Il fatto è che qui ci troviamo in un momento diverso – segnala un’attivista del Frente Plural Ciudadano di Ciudad Juárez – già siamo passati attraverso il lutto, le proteste, i canti, le preghiere, le candele, l’esigenza che i governi [dei differenti livelli municipale, statale e federale] ci ascoltino. Juárez ha già pianto, ha già pregato, e ci troviamo in un altro momento, quello dell’organizzazione, dell’articolazione, della riflessione sui passi da dare”. “No se negocia la sangre” recitava lo striscione di uno dei gruppi di giovani che hanno accolto la carovana giovedì sera.

Il documento, firmato venerdì sera in una delle piazze centrali di Ciudad Juárez dai promotori della carovana e da centinaia di partecipanti e cittadini, in una versione ancora preliminare come si sono affrettati a chiarire i promotori, include per il momento la richiesta del ritiro immediato dell’esercito. Firmato il giorno del quarantesimo anniversario del massacro di più di cento studenti avvenuto a Città del Messico il 10 giugno 1971, il secondo per importanza dopo quello del 2 di ottobre del 1968 a Piazza delle tre culture, per mano di un gruppo paramilitare conosciuto come los halcones, i falconi, armato dal governo del sinistro presidente Luís Echeverría negli anni della guerra sporca, rappresenta l’ambizioso tentativo di rifondare il paese dal basso sui temi cruciali che già da quegli insanguinati anni ’70 costituivano il nodo delle rivendicazioni sociali. La corruzione della classe politica, la totale mancanza di indipendenza del potere giudiziale, le disastrose politiche neoliberali – allora solo agli albori, oggi in un tramonto fatto di disuguaglianze sempre più nette, disoccupazione e ritorno della fame nelle periferie delle città e nelle zone rurali e indigene –, la sudditanza economica delle campagne agli interessi di imprese multinazionali agroindustriali, la richiesta di democrazia partecipativa con il riconoscimento di organi autonomi, cittadini e radio comunitarie e la fine del duopolio mediatico Televisa-Tv Azteca (le due principali imprese di radio-televisione messicane che da sole occupano il 98% dei canali di pubblici) fatto di telenovelas, sensazionalismo e notizie asservite al potere, l’esigenza di politiche reali per i giovani che garantiscano un’educazione di qualità e dei salari degni e attacchino realmente la capacità d’attrazione del narcotraffico.

Poter dare seguito a tante aspettative e richieste attraverso azioni di resistenza civile, sit-in e boicottaggi e ampliare la partecipazione dei tanti messicani che sono rimasti nelle proprie case per paura o disillusione, rimane ad oggi la principale ambizione. Il paese frustrato dal calderonismo, stretto tra i narcos, la crisi economica e la militarizzazione, cerca disperatamente una possibilità per cambiare strada e far finire quella che è a tutti gli effetti una guerra dimenticata. Il movimento che sembra sorgere dal viaggio attraverso la “ferita del paese” è l’ennesimo segnale che comunque il Messico non si arrende.

Il testo completo del documento si può leggere qui: http://redporlapazyjusticia.org/?p=1623

Per vedere o ascoltare testimonianze raccolte durante la Carovana:

http://desinformemonos.org/2011/06/caravana-por-la-paz-con-justicia-y-dignidad/

http://kehuelga.org/diario/spip.php?article608&lang=es

Alcune foto della due giorni a Ciudad Juárez:

http://www.facebook.com/media/set/?set=a.129761467102554.34168.100002061057970

Per Matteo.
Mentre scrivo arriva la notizia della tua morte assurda.
Il tuo sguardo partecipe, critico, sincero su questo paese che entrambi amiamo è sempre stato per me esempio e guida.
Mi mancherai.

Si è conclusa a El Paso negli Stati Uniti la marcia della “Carovana per la pace con giustizia e dignità”. Nei più di 3000 km percorsi lungo la “ferita del paese” la Carovana ha toccato le principali città del centro e del nord del Messico insanguinate dalla guerra contra il narcotraffico dichiarata da Felipe Calderón all’inizio del suo mandato nel 2006, che ha già fatto 40.000 vittime e 10.000 desaparecidos, per culminare a Ciudad Juárez, l’“epicentro del dolore”, come l’ha definita il poeta Javier Sicilia, figura catalizzatrice di un movimento ancora in costruzione.

Il 28 marzo scorso i cadaveri di Juan Francisco Sicilia, figlio ventiquattrenne del poeta, e altri 6 giovani sono stati ritrovati in una macchina abbandonata su una strada di provincia vicino alla città di Cuernavaca, nello stato di Morelos, a poche decine di kilometri da Città del Messico. Nei giorni successivi al ritrovamento le autorità giudiziarie hanno diffuso la notizia del possibile coinvolgimento di ex militari e soldati legati a gruppi criminali attivi nella regione, arrestato due possibili implicati (cosa molto poco comune, soprattutto per i mille figli di nessuno, principali vittime di questa guerra) e provato ad archiviare il tutto come l’ennesimo atto criminale di delinquenti senza scrupoli. Ma la società civile, prostrata da anni di violenza e di mancanza di giustizia, è scesa nelle piazze e ha alzato la voce.

Javier Sicilia, intellettuale cattolico formatosi con i testi della teologia della liberazione, collaboratore de La Jornada, e un gruppo di difensori di diritti umani a lui vicino (come Pietro Ameglio, di origine italiana, autore di scritti sulla non violenza e il pensiero gandhiano e membro di Serpaj, un’istituzione cattolica per i diritti umani attiva in tutta l’America Latina, o Emilio Álvarez Icaza, ex presidente della Commissione per i Diritti Umani di Città del Messico) provenienti da una élite cattolica progressista radicata nella città di Cuernavaca (piccola isola di verde e tranquillità a pochi passi da Città del Messico raggiunta dal 2009 dall’eco delle violenze), hanno chiamato la cittadinanza a manifestare il proprio dolore e la propria rabbia. Il grido di un “ora basta” collettivo è stato lanciato contro il crimine organizzato, ma anche e soprattutto contro quelle istituzioni che dovrebbero garantire la sicurezza e la giustizia e che invece stanno provocando solo terrore e impunità: 98% delle indagini non portate a termine, abusi e violazioni dell’esercito e della polizia federale che dal 2007 sono stati inviati nei punti caldi del paese (in particolare lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti ma anche in stati come il Michoacán o Sinaloa, centri importanti di produzione e transito di droga e luogo di origine, il secondo in particolare, dei più importanti capi delle organizzazioni criminali) nell’ambito della strategia di “guerra al narcotraffico” messa in opera dal governo di Felipe Calderón, responsabilità delle autorità a tutti i livelli di governo, che in questo paese sono al massimo di un discredito di lungo corso e spesso se non quasi sempre conniventi col crimine organizzato (come rivela una dettagliatissima inchiesta di una giornalista messicana, Anabel Hernández, sui “signori del narco”) (https://www.gennarocarotenuto.it/15505-messico-narcotraffico-e-giornalismo-il-video-del-panel-al-festival-internazionale-del-giornalismo-di-perugia).

La reazione della società civile mobilizzatasi sull’onda della commozione per l’omicidio di Juan Francisco Sicilia è stata imponente: 200 mila persone l’8 maggio scorso a Città del Messico, e neanche un mese dopo, una ventina di autobus e decine di macchine che hanno raggiunto Ciudad Juárez, per firmare in questa città simbolo del fallimento della guerra contro il narcotraffico e della modernità neoliberale (https://www.gennarocarotenuto.it/13382-ciudad-jurez-viaggio-al-termine-del-neoliberismo/) un documento in cui si esigono “la fine immediata della strategia di guerra, la smilitarizzazione della polizia e il ritorno dell’esercito nelle caserme”. Le ambizioni del documento, elaborato in una sua prima versione dal gruppo vicino a Sicilia e poi discusso e completato nella giornata di venerdì a seguito di nove tavoli di lavoro, vanno però ben al di là della fine della “falsa guerra contro il narco” e riflettono le anime diverse e a tratti conflittuali che hanno composto la carovana. Da un lato la voce delle vittime che chiedono “verità e giustizia” per i propri cari assassinati, desaparecidos o arrestati ingiustamente e vedono nelle istituzioni, per quanto queste si siano rivelate negligenti e spesso colpevoli, un interlocutore indispensabile, per lo meno nell’immediato. Dall’altro, le rivendicazioni politiche di quei soggetti sociali – difensori dei diritti umani, giovani dei collettivi, organizzazioni sindacali indipendenti, ragazzi delle radio comunitarie e media alternativi – impegnati da anni nella denuncia delle violenze e delle ingiustizie e che vedono in questa guerra la manifestazione più atroce e palese di un sistema economico e politico che sta portando un grande e ricco paese come il Messico al limite del collasso.

Il punto di tensione maggiore è legato ai modi e ai tempi della richiesta di smilitarizzazione e alle possibilità di negoziazione con le autorità. Se i primi, e lo stesso Javier Sicilia, considerano dirimente la questione della giustizia e della risoluzione dei casi e per questo reputano necessario un momento di confronto con le autorità a partire dal quale eventualmente avviare azioni di resistenza civile, i secondi, rivendicano l’esigenza della smilitarizzazione del paese e della società come conditio sine qua non per qualsiasi possibile dialogo con le istituzioni.

I primi, etichettati nei giornali forse in modo troppo semplificativo come vittime, sono in gran maggioranza donne e uomini umili, che non si erano mai trovati su un palco e con un microfono in mano e che hanno trovato nella Carovana la possibilità di raccontare la propria storia di fronte alle telecamere, nelle strade di città lontane, di fronte a cittadini venuti da ogni angolo del Messico. Padri, madri, sorelle, mogli che hanno raccontato la storia dei propri cari ammazzati, desaparecidos o incarcerati ingiustamente e hanno ascoltato le storie degli altri e condiviso la rabbia, il dolore, la disperazione di trovarsi di fronte ad autorità incapaci e spesse volte colpevoli. Uomini e donne che si sono commossi al grido di “no estás sólo” “non sei solo”, con cui i manifestanti riempivano il silenzio carico di emozione di chi non riusciva a trovare le parole. “I morti non sono 40.000 morti. E’ mio figlio Joaquín che è morto, è Juan Francisco, è Gabo. Sono Luís e Ximena e la quantità di morti che non conosciamo. Nessuno conosce i loro nomi, solo le famiglie li piangono. Ma i morti sono i morti di tutti”. Le parole di Teresa Carmona, madre di uno studente di architettura dell’UNAM (la più grande università del paese e, per numero di studenti, del mondo) ucciso 10 mesi fa, partecipante della carovana, riassumono un sentire comune. I numeri della guerra si sono fatti storie, nomi, volti, come dimostrano le decine di cartelloni più o meno improvvisati che hanno riempito la piazza del monumento a Benito Juárez nel centro di Ciudad Juárez nella serata di venerdì. Questo lungo viaggio attraverso un paese in lutto è diventato così una “Carovana del conforto” come l’ha definita Javier Sicilia con una delle sue espressioni cariche di spiritualità ed escatologia (è continuo nei suoi messaggi il riferimento alla passione ma anche alla risurrezione del paese): “il dolore non ha ideologie, né agende politiche, il dolore cerca solo una cosa, il conforto e la giustizia”.

I secondi, le cui posizioni sono riconducibili ad un gruppo di organizzazioni di Ciudad Juárez riunite nel Frente Plural Ciudadano, alla Coordinadora metropolitana contra la militarización y la violencia, rete di associazioni di Città del Messico impegnate nella difesa dei diritti umani da sinistra, ma anche ai tanti giornalisti di media indipendenti che hanno partecipato alla manifestazione, pur riconoscendo il diritto dei familiari delle vittime di esigere giustizia alle autorità e accedere a possibili indennizzi, considerano dirimente la smilitarizzazione del paese e il giudizio ad una classe politica corrotta e connivente. “Il fatto è che qui ci troviamo in un momento diverso – segnala un’attivista del Frente Plural Ciudadano di Ciudad Juárez – già siamo passati attraverso il lutto, le proteste, i canti, le preghiere, le candele, l’esigenza che i governi [dei differenti livelli municipale, statale e federale] ci ascoltino. Juárez ha già pianto, ha già pregato, e ci troviamo in un altro momento, quello dell’organizzazione, dell’articolazione, della riflessione sui passi da dare”. “No se negocia la sangre” recitava lo striscione di uno dei gruppi di giovani che hanno accolto la carovana giovedì sera.

Il documento, firmato venerdì sera in una delle piazze centrali di Ciudad Juárez dai promotori della carovana e da centinaia di partecipanti e cittadini, in una versione ancora preliminare come si sono affrettati a chiarire i promotori, include per il momento la richiesta del ritiro immediato dell’esercito. Firmato il giorno del quarantesimo anniversario del massacro di più di cento studenti avvenuto a Città del Messico il 10 giugno 1971, il secondo per importanza dopo quello del 2 di ottobre del 1968 a Piazza delle tre culture, per mano di un gruppo paramilitare conosciuto come los halcones, i falconi, armato dal governo del sinistro presidente Luís Echeverría negli anni della guerra sporca, rappresenta l’ambizioso tentativo di rifondare il paese dal basso sui temi cruciali che già da quegli insanguinati anni ’70 costituivano il nodo delle rivendicazioni sociali. La corruzione della classe politica, la totale mancanza di indipendenza del potere giudiziale, le disastrose politiche neoliberali – allora solo agli albori, oggi in un tramonto fatto di disuguaglianze sempre più nette, disoccupazione e ritorno della fame nelle periferie delle città e nelle zone rurali e indigene –, la sudditanza economica delle campagne agli interessi di imprese multinazionali agroindustriali, la richiesta di democrazia partecipativa con il riconoscimento di organi autonomi, cittadini e radio comunitarie e la fine del duopolio mediatico Televisa-Tv Azteca (le due principali imprese di radio-televisione messicane che da sole occupano il 98% dei canali di pubblici) fatto di telenovelas, sensazionalismo e notizie asservite al potere, l’esigenza di politiche reali per i giovani che garantiscano un’educazione di qualità e dei salari degni e attacchino realmente la capacità d’attrazione del narcotraffico.

Poter dare seguito a tante aspettative e richieste attraverso azioni di resistenza civile, sit-in e boicottaggi e ampliare la partecipazione dei tanti messicani che sono rimasti nelle proprie case per paura o disillusione, rimane ad oggi la principale ambizione. Il paese frustrato dal calderonismo, stretto tra i narcos, la crisi economica e la militarizzazione, cerca disperatamente una possibilità per cambiare strada e far finire quella che è a tutti gli effetti una guerra dimenticata. Il movimento che sembra sorgere dal viaggio attraverso la “ferita del paese” è l’ennesimo segnale che comunque il Messico non si arrende.

Il testo completo del documento si può leggere qui: http://redporlapazyjusticia.org/?p=1623

Per vedere o ascoltare testimonianze raccolte durante la Carovana:

http://desinformemonos.org/2011/06/caravana-por-la-paz-con-justicia-y-dignidad/

http://kehuelga.org/diario/spip.php?article608&lang=es

Foto della due giorni a Ciudad Juárez:

http://www.facebook.com/media/set/?set=a.129761467102554.34168.100002061057970