Gheddafi, la primavera dei popoli mediorientale e il punto di vista latinoamericano

L’America latina è lontana dal Medio oriente e non provatevi a capire cosa accade in Libia e in Medio oriente leggendo la stampa latinoamericana. Vi disorientereste e in qualche caso restereste molto delusi nel trovare notizie improbabili su manifestazioni in favore di Gheddafi, sull’ordine che regna a Tripoli o al massimo un passacarte di agenzie terziste a denti stretti. Se è corretto denunciare un possibile intervento straniero, i pericoli di frammentazione del paese, o perfino la disinformazione all’opera, il silenzio delle organizzazioni multilaterali, a partire da Unasur e Mercosur, è oramai assordante. Non meglio va con i governi, con l’eccezione del Perù e dell’Uruguay. Dal Brasile all’Argentina, da Cuba al Nicaragua al Venezuela, relazioni e alleanze storiche, preoccupazioni geopolitiche, timori e sottovalutazioni, fanno sì che l’America latina dei movimenti sociali, l’America latina altermondista e terzomondista delle relazioni Sud-Sud, sembri non comprendere e voltare le spalle alla primavera dei popoli mediorientale e non faccia una bella figura (né i suoi interessi né il suo dovere).

La distanza si fa incolmabile nell’interpretazioni dei fatti libici, tutta geopolitica e ideologica. In Libia sarebbe guerra civile e non sollevazione popolare, in una forma interpretativa dove le aspirazioni dei popoli, le motivazioni dei giovani in piazza, i rapporti di forza con la repressione, non trovano spazio. In particolare media come Telesur, ma non va molto meglio con la Jornada o con Página12, ovvero la crema dell’informazione progressista latinoamericana, leggono i fatti esclusivamente in un’insufficiente ottica geoenergetica. Media che, mentre il mainstream spargeva letame disinformativo a piene mani, hanno illuminato il mondo sulla rivolta zapatista del 1994, o la caduta del regime neoliberale in Argentina nel 2001 o il golpe in Honduras nel 2009, oggi si rifugiano nella comodità di un’interpretazione del tutto riduttiva: “gli amerikani vogliono il petrolio libico”.

Chi da cent’anni cerca di crearsi il proprio spazio nel mondo lottando contro le ripetute aggressioni statunitensi (militari, economiche, mediatiche), chi da questo deve difendere le proprie ricchezze e in particolare il proprio petrolio con le unghie e con i denti, chi vede sistematicamente finanziare dall’estero opposizioni eversive, non riesce a leggere (o non vuol leggere, anche per motivi di propaganda) gli eventi libici che in una sola ottica: Gheddafi difende il petrolio libico dall’attacco imperialista. Bastano poche frasi  anticolonialiste del battutaro libico, massacratore di migranti in ossequio alle sacre direttive dell’Unione Europea e compagno di bunga bunga di Silvio Berlusconi, per infervorare a suo favore molti tra quelli che in America latina hanno una storia cristallina di lotta per l’autodeterminazione dei popoli e contro le ingerenze straniere. In particolare l’interpretazione del governo venezuelano si fa tutta realpolitika nella preoccupazione di perdere un alleato importante nello scacchiere chiave dell’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio che era moribonda e supina agli interessi occidentali quando Hugo Chávez andò al governo in Venezuela e che è stata fondamentale, soprattutto per merito venezuelano, nel diventare fattore di multipolarismo nel mondo attuale.

Le preoccupazioni di intervento della NATO sono legittime ma forse esagerate e soprattutto occultano che un massacro è già in atto. In questo l’editoriale di Fidel Castro ampiamente ripubblicato e commentato in tutto il mondo è impeccabile nella prudenza e anche nel condannare la repressione. Ma l’interpretazione di Fidel è tutta per la tesi “guerra civile” scartando la possibilità di una sollevazione popolare in corso e del risveglio della società civile libica simultaneo, sull’onda della Rete, a quello di altri popoli della regione.

Quanto stiamo vedendo in Libia sarebbe l’inizio di una “rivoluzione colorata” eterodiretta dall’Occidente o è un’altra sollevazione popolare contro autocrazie amiche dell’Occidente? Tra la speranza e la preoccupazione Fidel sceglie la chiave interpretativa della paura. Ha ragione anche Hugo Chávez a censurare la doppia morale della comunità internazionale nel condannare Gheddafi e restare zitta sui bombardamenti chimici statunitensi su Falluja, sull’assedio israeliano di Gaza e sui sistematici massacri di civili in Iraq e Afghanistan. Ha ragione Chávez e il suo cancelliere Nicolás Maduro a puntualizzare il pericolo di un intervento occidentale e della divisione del paese che in questo momento più d’uno tra quanti guardano con orrore agli eventi libici considerano auspicabile. Ma anche Chávez sceglie la chiave della “guerra civile”, nella quale si schiera purtroppo con Gheddafi, contro un’opposizione popolare che considera eterodiretta e che implicitamente assimila all’opposizione, quella sì eversiva, che fronteggia a casa sua.

Vero è anche che alcune delle notizie di stampa appaiono schematicamente esagerate (i mercenari africani pagati 12.000 € a omicidio, i 10.000 morti, gli stupri casa per casa, perfino i video sulle fosse comuni) inducendo una volta di più alla prudenza sulla disinformazione come sempre sparsa a piene mani dal mainstream. Ma non è possibile fare come se Gheddafi non stia massacrando il proprio popolo e come se il precedente di bombardamenti su manifestazioni popolari non sia proprio quello dei gorilla argentini contro il popolo peronista nel 1955 per imporre la prima dittatura antipopolare e fondomonetarista.

Molte delle preoccupazioni sono legittime ma è vero anche che i leader e l’informazione latinoamericana appaiono sottovalutare aspetti fondamentali di quanto accade in Libia e più in generale in Medio oriente. No, in Medio Oriente non stiamo vivendo una nuova rivoluzione colorata eterodiretta da Washington e benedetta dal Fondo Monetario Internazionale. In Medio oriente siamo all’inizio, appena all’inizio, di una “primavera dei popoli” simile a quella che l’Europa ha vissuto nel lontano 1848 quando nel giro di pochi mesi, e senza alcuna agenda predefinita, si liberò dei governi della Restaurazione imposti alla sconfitta di Napoleone I. Per quanto complicato possa sembrare è dovere dell’America latina integrazionista essere conseguente con la propria stessa genesi e appoggiare senza paura i popoli mediorientali che si stanno liberando di regimi autocratici spalleggiati spesso per decenni dall’Occidente. E’ dovere dell’America latina svelare una volta di più la menzogna dell’ “esportazione della democrazia” ed appoggiare i fuochi di ribellione che nascono nel sud del mondo.

In queste ore i governi occidentali, in particolare il più screditato di tutti, quello italiano, stanno millantando il pericolo dell’avvento di governi basati sul fondamentalismo islamico per imporre una nuova generazione di autocrati che facciano che tutto cambi perché nulla cambi. Ma non ci sono molti barbuti né burka in piazza a Bengasi come ieri al Cairo e l’altro ieri a Tunisi. E se ci sono l’obbiettivo dev’essere appoggiare quei ragazzi sbarbati e quelle ragazze dal volto scoperto perché siano in grado di esprimere una classe dirigente alternativa. Se nessuno crede nei popoli del Medio oriente l’America latina deve credere nei popoli del Medio oriente. Non c’è altra via, per l’America latina, che riconoscere nei ragazzi egiziani, tunisini, libici, domani ojalá sauditi, le stesse aspirazioni e le stesse speranze che hanno strutturato negli anni ‘90 i movimenti sociali latinoamericani che hanno saputo farsi governo. Fino a ieri le relazioni Sud-Sud erano affare (importante) dei governi. Adesso la sfida diventa far diventare popolari tali relazioni Sud-Sud.

Per arrivare a ciò è indispensabile riconoscere in Gheddafi il nemico politico e non solo il (prescindibile) alleato geopolitico. Non possiamo più condannare i crimini commessi contro i migranti dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e da governi come quello di Felipe Calderón in Messico se non riconosciamo in Muammar Gheddafi il massacratore di migranti per conto di Silvio Berlusconi e di altri governi europei. Forse sono false le fosse comuni mostrate dai media, ma non sono false le fosse comuni in Libia dove in questi anni sono finite le speranze di migliaia di migranti africani. Quando nel 2008 l’America latina tutta, Fidel, Chávez, Lula, Evo, esplose contro la vergogna delle direttive europee contro i migranti, era a Gheddafi che l’UE appaltava una parte di tali crimini ed è con Gheddafi che fanno affari il lugubre Cameron, il triste Sarkozy e l’impresentabile Berlusconi. Gli europei erano i mandanti, ma Gheddafi era il sicario di quei migranti.

D’altra parte è innegabile che anche se in Libia non è in corso un “genocidio”, Gheddafi stia reprimendo il proprio popolo con una ferocia intollerabile, impresentabile, imperdonabile. Forse i morti non sono 10.000 come racconta il sistema disinformativo mainstream, ma sono comunque centinaia. Ed è un’onta difficilmente emendabile che per Telesur Al Jazeera sia un partner strategico quando racconta i crimini statunitensi o israeliani ma vada oscurata quando narra del popolo libico che si ribella. Vorremmo vedere anche su Telesur le immagini dei ragazzi di Bengasi che portano in piazza le immagini di Omar al Mukhtar, l’eroe della lotta contro il colonialismo italiano. E’ con loro che deve stare l’America latina!