Il prevedibile tramonto della Concertazione in Cile

Il Cile va alla destra dura e pura, sia pur mascherata con la paccottiglia mediatica, l’aberrazione dell’invocazione continua di dio (e il terzo comandamento?) e i cotillon dell’american dream, di Sebastián Piñera. Il Berlusconi cileno, per semplificare attenendosi al libretto, rappresenta quella concentrazione di potere economico, mediatico, perversione e capacità di corruttela e menzogna per la quale il modello neoliberale, l’informalizzazione di ogni rapporto di lavoro, l’azzeramento dello Stato come strumento di difesa dei deboli e il favorire senza limiti la concentrazione della ricchezza, sarebbe tuttora il destino naturale dell’uomo. Ciò nella presunzione che tale destino naturale rappresenti il “cambio” necessario per il paese a vent’anni dalla fine della dittatura e nonostante vent’anni di centro-sinistra non si siano mai discostati dal modello neanche quando sono stati a guida socialista, con Ricardo Lagos e Michelle Bachelet.

La storia della Concertazione è finita così in un caldissimo pomeriggio di gennaio in un hotel a cinque stelle di Santiago, un buon posto per una coalizione che ha da tempo smarrito la sua storia. Poche facce ricordano quelle dell’88, quando donne e uomini feriti, mutilati e umiliati dalla dittatura ma non sconfitti, pensavano che ci fosse finalmente l’opportunità di costruire, sia pure con l’ipoteca della Costituzione pinochetista, un paese e una democrazia nuova. In pochi oggi ascoltano le parole di circostanza del candidato sconfitto, il bolso democristiano Eduardo Frei, una minestra riscaldata (era stato già grigio presidente negli anni ’90), che ha rappresentato il tentativo suicida di far passare equilibri di partito come necessità del paese. Una militante, mostrando rara capacità di sintesi, gli grida inascoltata: “abbiamo perso per la nostra superbia e la nostra incapacità”.
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