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Il secolo della precarietà

Brecha mi ha chiesto di introdurre uno speciale per il primo maggio su lavoro e precarietà con una storia del lavoro in 3.000 caratteri. Ne è venuto fuori un quasi Haiku in un po’ più, ma non molto, di 17 sillabe.
Buon primo maggio a tutti gli amici di GennaroCarotenuto.it [1]

In principio fu la fabbrica. Prima della fabbrica neanche esisteva il lavoro. O se esisteva, quelli che lavoravano erano mille pedine prese singolarmente. Ma non erano né individui né collettività. Senza fabbrica non c’erano le masse. La fabbrica creò la classe, i sindacati, i partiti, la coscienza di sé.

Quando Karl Marx e Mijail Bakunin smisero di litigare, cominciò il divertimento. I lavoratori uniti in sindacati e partiti ottenevano di più che atomizzati. Nel XX secolo arrivò Henry Ford. Esistevano le masse e Ford capì che poteva torcere il braccio e la coscienza di classe perché gli operai sognassero di consumare gli stessi prodotti che fabbricavano. Tuttavia a quell’epoca erano i capitalisti quelli che si atomizzavano.

L’economista inglese John Maynard Keynes teorizzò l’alleanza tra capitale e lavoro sotto la conduzione dello Stato. Ciò, specialmente nell’Europa ricca, fu sufficiente per allontanare le sirene del socialismo reale con diritti, sicurezza sociale e lavorativa.

Finita la guerra fredda, finì la necessità di una tregua tra capitale e lavoro. Almeno non era più necessaria al capitale. E così, dopo la guerra fredda iniziò un’altra guerra: contro il lavoro. C’erano Ronald Reagan, Margaret Thatcher, e centinaia di loro epigoni. Vinsero epiche battaglie contro minatori e lavoratori statali condotti da una sola logica: sconfiggere il potere dei lavoratori organizzati. Molti applaudivano.

Ci riuscirono e l’alleanza che aveva generato lo stato sociale e sconfitto il socialismo perse di senso. La fabbrica fordista continuava ad essere produttiva in termini economici, ma aveva un difetto: lì i lavoratori, a volte decine di migliaia, si univano e continuavano a guardare a se stessi come classe.

Utilizzarono la teologia del libero mercato, una strana religione che accende ceri ad una mano invisibile che tutto aggiusta e, aiutandosi con le differenze tra nord e sud, ovest e est, il capitale fratturò sistematicamente la classe operaia. Le grandi fabbriche cominciarono col conto terzi e finirono per delocalizzare.

Nacquero così le “maquiladoras”. Ognuno aveva la sua. Gli Stati Uniti avevano il Messico e con l’ALCA volevano avere tutta l’America Latina. Il Giappone aveva l’Asia e l’Europa aveva il suo Est. Milioni di lavoratori qualificati, sopravvissuti al fallimento del socialismo reale. Quando il comitato centrale del Partito Comunista Cinese decretò che “arricchirsi è glorioso”, spazzò via tutto. Anche quelli che avevano applaudito. Per i lavoratori cinesi era necessario credere nella reincarnazione: le condizioni di centinaia di milioni di loro somigliano alla Manchester studiata da Carlo Marx.

Dal nord al sud del mondo, giovani di classe media smisero di consumare, fondare famiglie, comprare auto o case e fare figli. Come, se non ho nulla di sicuro? Nel frattempo milioni di giovani proletari affondavano nei settori informali o migravano. La trovata di Henry Ford -che fossero i suoi lavoratori a comprare le sue auto- tramontò e la precarietà divenne la regola.

Per i sacerdoti della mano invisibile, l’unica cosa importante del lavoro era il suo costo: basso. Come storici definiamo il XX secolo in molte maniere, per le masse, per la Shoah, per le guerre. Ma se qualche ragione poteva avere Francis Fukuyama, quando proclamò la fine della storia e il trionfo del liberismo economico, allora il XXI secolo potrebbe passare alla storia come il secolo della precarietà e il povero XX secolo passerebbe ad essere il rimpianto secolo della (quasi) inclusione sociale.